Canti Narrativi

in Ottave

 

 

 

 

I canti in ottave continuano una tradizione « orale » che, tecnicamente, ha radici nei poemi cavallereschi ed eroicomici e trovano nel Berni i riferimenti stilistici.

I cantastorie che praticarono questo tipo di semiletteratura si chiamarono, appunto, « bernescanti » e nell'Ottocento ebbero largo seguito nelle campagne, disputando dei contrasti ormai macroscopici fra campagna e città.
D'altronde, anche nella letteratura colta ed autoctona è possibile reperire tracce delle contraddizioni fra passato arcadico e presente « urbano ». Già nella « Altercazione ovvero dialogo » di Lorenzo de' Medici si può leggere:

 

 

Ma voi vi state in questi monti, dove

pensier non regna perturbato e rio,

né il cor pendente sta per cose nuove.

 

 

                                                           

A cui il montanaro risponde:

 

 

Qual cosa questa vita non fa trista?

Al freddo, al caldo stiam come  animali;

e questa è la dolcezza che s'acquista.

 

 

Ed è proprio su questo tema, liberato da nostalgie bucoliche, che si sviluppa molta parte dei canti ottocenteschi. Infatti numerosi sono i canti che si riferiscono alle dispute fra padrone e contadino: « Contrasto fra padrone, fattore e contadino », « Contrasto fra un padrone ed un fattore », « Contrasto curioso fra un padrone e un contadino che vuol mangiare a tutti i costi », « Contrasto fra un povero e un ricco borghese », ecc. o legate agli altri temi del mondo agricolo pastorale.

 

Queste composizioni, per lo più opera di analfabeti o, come si dice, « illetterati » trattavano anche di cronaca nera, di brigantaggio, di trame cavalleresche tradotte da altri materiali.

Fra i cantastorie più noti si ricordano Giovacchino Pestelli che compose « Il campagnolo ed il cittadino », il Picchi detto anche il Moro di S. Gallo, il Mori ovvero il poeta contadino e Giuseppe Moroni, detto il Niccheri che, per quanto « illetterato », compose un'infinità di canzoni e canti in ottava rima e - fra i suoi contemporanei più illustri - trovò estimatori che giunsero a paragonarlo al Leopardi ed allo Shakespeare. Fra questi Raffaele Andreoli ed il Fanfani.

 

Naturalmente, bisogna saper distinguere e fra queste manifestazioni semiletterarie si inserirono documenti di una genuina cultura popolare, antropologica. Sono questi i canti più cupi ed unitari: cupi per la coscienza di una condizione asservita ed unitari per l'assenza del momento giullaresco, perché nati e diffusi all'interno del mondo contadino.

Proviene proprio da questo settore del libro, « Il nipote che sogna il nonno morto » del Niccheri, il titolo dell'intera raccolta:

 

 

Ma son tanto più care le gabelle!
Un miglio intero, sai, fuor d'ogni porta,
Se tu vedessi l'hanno fatte belle:
Si pesano i barrocci alla stadera,
E il suo nome è chiamato la barriera

 

 

 

« La barriera », appunto, che lungamente ha relegato la civiltà contadina in margini di sottosviluppo e di medioevale soggezione.

                                                  

 
     
 

Il Campagnolo e il Cittadino

Ero in Firenze per combinazione,

In una trattoria a desinare,

E vi era in questa dimolte persone,

E un poco stretti ci convenne stare,

Nacque fra due di questi una quistione

Che più di un'ora la fecer durare;

Eran due che sedeano a me vicino

Un di Firenze e un di Casentino.

 

« Come tu puzzi! » Disse il fiorentino

Al campagnolo, e poi la testa inchina;

« Mi fai risortir fuori il pane e il vino,

La zuppa, la bistecca e la tacchina:

O porco sudicion d'un contadino,

Tu sei più lercio te di una latrina!

Eppure l'acqua a casa ce l'avrai,

Villan fottuto, e non ti lavi mai?... »

 

« Te con il tanto stropicciar che fai

Con quell'acqua di crusca e saponetta,

E tutti quegli odori che ti dai

Dai fondamenti per infino in vetta,

Presto la vita tua terminerai,

Non sei capace a regger la giannetta...

Ti resta appena il fiato per parlare,

Dimmi, cosa ti conta il tuo lavare? »

 

« S'io fosse la Giustizia, vorrei fare

Dei contadini tutt'una brancata,

Ed a Livorno gli vorrei mandare,

Al Porto dove giunge ogni fregata,

E gli vorrei buttar dentro nel mare,

Per levar questa setta tribolata...

E buttar giù finché il mar non è pieno,

Senza rimorso di coscienza in seno! »

 

« Per pietà, fiorentino, parla meno:

Già vedo bene tu hai perso il cervello,

Il contadino lavora il terreno;

Custodisce la pecora e l'agnello,

Per raccoglier frumento, biade e fieno,

E custodisce il bove ed il vitello:

L'opre del contadino ed il talento

Bastano a prepararti il nutrimento ».

 

« Coi contadini io non mi cimento,

Il contadino quando parla pecca,

Ma tasta con la mano sotto il mento,

Fra quella po' di barba vi è una zecca.

Dai più fastidio che dell'inverno il vento; Guardalo con la lingua il piatto lecca...

A quella mensa ove mangiate voi

Vi è pecore, maiali, vacche e buoi! »

 

« Te i contadini biasimar tu vuoi,

Ma dalle spine viene il bel rosaio;

Se leggi il libro degli antichi eroi

Troverai Giotto ch'era un pecoraio,

E pascolava gli animali suoi:

Senza l'innanzi di Tizio, nè di Caio,

Prese una lastra bianca e po' in quella

Vi fece la pittura di un'agnella ».

 

« Guarda quel grullo cosa mi favella!

Di ragionar di Giotto un ti conviene;

Quello che fece lui non si scancella,

Quello che fece lui sta tutto bene.

Natura gli donò la virtù bella,

Non era un mammalucco come tene!

A che ti paragoni, montanaro,

Non siei capace a dar bere al somaro?

 

« Certo non son capace e non imparo, Perché il ciuco non è mia compagnia;

L'ho trovato oggidì per caso raro,

Perché son giunto in questa trattoria;

Oste, vieni qua, prendi il denaro,

Io rendo il posto libero e vo via,

Che molte miglia devo far di strada...

Do bere al ciuco, e una mezzetta di biada»

 

« Villan fottuto, contadino, bada,

Se avrò d'accordo gli altri fiorentini,

Mi metterò alla porta con la spada,

E proibirò l'ingresso ai contadini,

Segno che voglia e vada come vada,

Sian di piano, di monti o di appennin

Sian di colline, della costa o valle,

Gli destino i suoi campi, prati e stalle»

 

« Quando avrem pien barili, sacchi e balle

D'ogni raccolta che tanto a noi preme.

E quelle pèsche colorite, gialle

D'ogni genere frutta ed ogni seme,

Quei prosciutti, salami e quelle spalle

Tra noi villani mangeremo insieme... Tacchi, piccioni, galletti e pollastre,

E te, in Firenze, mangerai le lastre».

 

 

 
     
 

Contrasto fra Padrone e Contadino

Se tu mi porgi ascolto udienza mia
ti vo' fare un racconto genuino,
d'un contrasto pien di bizzarrìa
che gli avvien tra i' padrone e i' contadino.

 

E gli eran tutt'e due nell'osteria

e bevuto gli avean dimorto vino

quando ebbe luogo i' dialogo seguente

anch'io per caso mi trovai presente.

 

I' padrone dicea: « Brutto impaziente

ll'è da un po' che la terra non ti frutta,

di conseguenza o stai senza far niente

o la raccolta tu mi pigli tutta.

 

Per te pago le tasse giornalmente

e spesso resto con la borsa asciutta,

intanto a seguitar di questo passo

le mie finanze se ne vanno in basso ».

 

« O padrone la un faccia tanto chiasso,

la un si lamenti tanto del suo stato,

io vedo bene ll'è nutrito e grasso

io son povero misero e strappato.

 

Le' mangia beve dorme e va a su' spasso,

in vita sua la un ha mai lavorato,

lei mantien servi, cavaliere e coco,

io lavoro dimorto e mangio poco ».

 

« O contadino il tuo linguaggio è fioco,

dice che ti sei fatto prepotente,

ma se qualcuno t'ha insegnato i' gioco

a me stai certo non mi poi fa' niente.

 

Se incominci a getta l'olio su i' foco

e gli è peggio per te sicuramente,

se mangi poco e versi assai sudore

pensa che te non sei nato signore ».

 

« Padrone se l'avesse un po' di core

la un mi farebbe certe osservazioni,

io so ni questo mondo i' creatore

non ci fusse né servi né padroni;
 

non ci fusse l'oppresso e l'oppressore

guerre carneficine e distruzioni,

ma solo il popolo debba aé de' frutti

perché desse il lavoro e i' pane a tutti ».

 

« O contadino mio male ti butti

a me non preme di saper s'Iddio,

se i' comune donò la terra a tutti

ma solo penso all'interesse mio,

 

e se spesso ti trovi a labbri asciutti

di questo male non ci ho a veder io,

del resto se tu soffri abbi pazienza

nell'altro mondo avrai la ricompensa ».

 

« O padrone a parlare in confidenza

se mi permette allor la pregherei

a soffrire e a star nell'astinenza

la cominciasse a dar l'esempio lei.

 

Ma invece è sempre pien di prepotenza

e vo' campare coi sudori miei,

dunque per ispiegarmi e farla corta

di' Paradiso a lei non gliene importa ».

 

« O villanzone, mente male accorta,

ai' tu padrone manchi di rispetto

a accattar ti vedrei co' una sporta

se ti mandassi via da i' poderetto,

 

e se di tribolare un te ne importa

per poco resterai sotto il mio tetto,
a contadini ormai non mi sgomento

ne caccio uno e ne ritrovo cento ».

 

« O padrone mi ascolti un sol momen

mi dica se un fussi i' contadino

chi gli procurerebbe i' nutrimento

i' pane bianco e i' prelibato vino,

 

siamo noi coi' sudore e con lo stento

gli s'empie la cantina e i' magazzino,

ma se la terra la un si lavorasse

vorrei saper da lei cosa mangiasse ».
 

« E tu sei nato dalla bassa classe

e tu lavori sulla terra mia,

pigli la tua metà non paghi tasse

senza contare icché mi porti via.

 

Io ci ho la servitù cavalli e case

e debbo mantenermi in signoria,

perciò l'entrate le un m'arrivan mai

con la sola metà che tu mi dai ».

 

« Caro padrone s'è discorso assai

ma però non conviene che i signori

che campino coi' sudor degli operai

che son d'ogni ricchezza i produttori.

 

E se qualcosa in vita mia rubai,

ci son de' ladri tra i commendatori,

molti ricchi han rubato più di noi

dite « o mia colpa »: c'insegnaste voi».

 

« Tu t'intendi di pecore e di boi,

di galline, di polli e di maiali,

l'opere nostre giudicar non pòi,

tu ti presumi di volar senz'ali.

 

Somari come te non siamo noi,

si conosce i fenomeni sociali,

per conseguenza è inutile il contrasto

chi nasce ciuco dee portare il basto ».

 

« Padrone non tocchiamo questo tasto

se siam somari la un è colpa nostra

della natura ll'è il solito impasto ll'è costruito alla grandezza vostra ».

 

 
     
 

Contrasto Curioso fra un Padrone e un Contadino che vuol Mangiare a Tutti i Costi

Là nel mese d'ottobre al dì ventotto

per S. Simone un giorno ricordato

si sentiva un padrone in un salotto

che contrastava come un disperato;

il quale non vi so dir chi sia più sdotto,

se l'uno è pazzo, l'altro è disperato.

E sulle mie ragion convien ch'io canti. Saluto chi mi ascolta e tiro avanti.

 

Udite l'argomento tutti quanti,

un contadino al suo signor padrone

gli dice: « Non ho vitto e né contanti,

ho digiunato a doppio S. Simone ».

Lui risponde: « Poi viene tutti i santi,

sconta quando facei tre colazione... »

Lo sfugge, lo rimprovera e minaccia

e per di più gli chiude l'uscio in faccia;

 

con rustiche maniere lo discaccia,

il contadino brontola e sbadiglia,

verso la casa riprende la traccia,

racconta tutto il fatto alla famiglia.

Al Dio si raccomanda a larghe braccia,

col figliolo maggiore si consiglia:

« Datemi i sacchi - risponde Pasquino -

o bastono il padrone o vo al mulino ».

 

Di corsa, come un frate al mattutino, dicendo non è tempo di pensarla,

giunto alla porta picchia ogni tantino,

con sette sacchi vuoti sulla spalla.

Il padron s'affacciò da un finestrino, Pasquino disse a lui, con quella balla:

« Pensi cosa ci fece nell'estate,

ci lasciò venti libbre di patate ».

 

« Tu siei più duro delle cantonate,

e smetti di picchiar la campanella,

io presi le raccolte e le altre entrate

per veder se quel chiodo si cancella ».

« A costi di finirla a bastonate,

come fece alle nozze Pulcinella,

pensi a darmi mangiare io penso a bere

e attendo alle faccende del podere ».

 

« Che bella forza, mettiti a sedere,

per sete c'è la fonte il fiume e il mare

e per la fame le famiglie intere

fuori d'Italia vanno a lavorare;

tu puoi partire e gli altri rimanere,

e regolarti molto nel mangiare,

solo una volta al giorno acqua e pane

e spedire la somma a chi rimane ».

 

« Così mi tratterei peggio di un cane,

non sono avvezzo a fare il galeotto

e nemmeno il digiun delle campane,

se ci vuole andar lei faccia fagotto.

Se lavoro il poder con le mie « mane »

son sicuro che vinco un terno al lotto,

se l'abbandono glielo dico in ghigna

come i ciuchi si mangia la gramigna ».

 

« Per me sarebbe meglio aver la tigna,

potrei guarir con medicine e bagni,

peggio tu siei della febbre maligna,

aver d'intorno te, mangia guadagni;

e se non vuoi vangar, potar la vigna,

vattene in pace, che Dio t'accompagni,

non ti do nulla se la vuoi capire,

questi beni per te non vo' finire ».

 

« Neanch'io di fame non voglio morire, venderò vacche, bovi ed altri armenti,

con quelle quattro o cinquemila lire

mi caverò la ruggine dai denti,

così lo voglio il portafoglio empire

di padroni, di amici e di parenti

e così me la passo la paura,

padrone a rivederci, a battitura ».

 

« Pasquino, tu farai brutta figura,

senza di me non vender bestie in fiera,

ti mando la disdetta in iscrittura,

tu passerai da ladro e va' in galera.

Portati bene e un po' di vagliatura

te la prometto in questa primavera,

e ti darò un quintale di mulende

quando ni colmo siei delle faccende ».

 

« L'ho per l'appunto lì dove m'intende,

queste proposte a lei li fanno torto,

veramente di me cura si prende,

vuol dar la biada quando il ciuco è morto.

Dalla fame uno cade e l'altro pende,

come anderà se il grano non gli porto,

io dico: aspetta lei cinque o sei mesi,

qualcun ci troverà tutti distesi ».

 

« Ma se i quattrini non li avevi spesi

in sottovesta, giubba e pantaloni,

con quelli stivaletti da marchesi,

in cilindri, catene e ciondoloni;

e poi con le ragazze nei paesi

fai la coglia alla barba dei padroni,

e chi fa i gobbi per comparir belli,

stamperà più lunari del Baccelli ».

 

« Pensi, nel mondo siam tutti fratelli:

ama più gli animali dei cristiani,

che fa di dieci gatti e quattro agnelli,

dieci cavalli e venticinque cani,

tre gufi, dieci gatti e cinque uccelli,

dame, spie, scrocconi e mangia pani,

fra ministri, ruffiani, cani e gatti

tiene in cucina cento leccapiatti ».

 

« Pasquino, bada ben come mi tratti,

prima dei can morranno i contadini,

così non tengo tanti libri imbratti

e vado a caccia e giro i miei confini.

Non ti avvezzare a riguardar miei fatti,

mi frutta in piano, costa ed Appennini:

benché peggio di te porti la vesta,

degno sarei di una corona in testa ».

« Perché dunque mi spoglia e mi molesta,

se potesse anche il sangue me lo cava, quando viene a spartire a me mi resta

un sacco, due fagioli ed una fava.

Tutto mi farò dare in pegno impresta,

così esclamando chiuderò l'ottava,

addio vestito, scarpe, addio oriolo,

addio teglie e mezzine, addio paiolo ».

 

« Tu canti bene come un usignolo,

son tutti segni a fantasia d'amore,

cerchi moglie dall'uno all'altro polo

non toccherebbe a te che sei il maggiore;

se prendi moglie avrai più d'un figliolo,

o forse un branco che metton terrore,

e poi gli manderai con tante sporte

a consumar battenti a queste porte ».

 

« Ma se io sposo l'Annina incontro sorte,

di una serva gli è tocco la sua parte,

vigna, denaro e di battaglia un forte

e vince un punto al diavolo nell'arte;

ragiona, pare un giudice di corte,

nel taglio sfiderebbe mille sarte

e per complimentare anche i padroni

la sa più lunga lei di Panattoni ».

 

« Se è vero questo, più non si ragioni,

da me la manderai sera e mattina,

farà pane, bucato e maccheroni,

altre faccende in camera e in cucina

e gli consegno camicia e calzoni,

la dispensa, il granaio e la cantina,

per te del vino te ne do un barile

e i sacchi ti empirò di gran gentile ».

 

Pasquino parte con parola umile,

sposa l'Annina e sazia ogni appetito,

allegro come un asino d'aprile

quando vede il trafogliolo fiorito.

E l'Annina con maniere femminili

serve prima il padrone del marito,

qua e là, su e giù lesta e sfrontata

si esporrebbe a servire anche un'armata.

 

Signori, questa storia è terminata,

chi prende moglie impari da Pasquino,

fra arte, vigna e serva ebbe un'entrata

che non gli mancò mai né pan né vino. Benché non ho studiato a tavolino

le mie scuse farò come gli altr'anni:

sono Fantoni e il mio nome è Giovanni.

 

 
     
 

Storia del Contadino e delle Sue Raccolte

Spirito di pietà, gran Dio d'amore,

rinforzate la mente al carme mio

e io possa questa storia cominciare

con giusti versi e con un buon desìo.
Io voglio qualche cosa raccontare
se mi permette quel pietoso Iddio
e se la Musa mia mi darà sorte
del contadino e delle sue raccolte.

 

Appena gli ha battuto nella corte,
il fattore s'infuria per partire
e vuole il mezzo di tutte le raccolte;

il contadin si sente inorridire.

Di tutti quanti vi dirò le scorte:

il primo gli è il dottore a comparire,

entra nell'aia con le guide in mano,

non si contenta di tre quarti di grano.

 

Il sensale di bestie ossia il mezzano
vuole dal contadin la senseria,
non si contenta di due quarti di grano
per pagamento di qualche bugia.
Il medico di bestie apre la mano,
corre nell'aia pieno di allegria,
se ha morto qualche bove oppur guarito
a tutte le raccolte vuol l'invito.

 

Il fabbro, viso tinto ed annerito,

corre nell'aia che par disperato

e con diverse sacca è premunito,

ride sott'occhi questo fabbro amato.

Il contadin diventa impaurito

nel vedersi da tutti circondato

e mentre al fabbro conta le sue staia

il calzolaio mette il pie nell'aia,

 

che di scarpe gli ha fatto molte paia
tra pelle di vacchetta e di cavallo,
gli fa un conto di quattro o cinque staia:
il contadin si mette a rimirarlo.
Tu vedessi che occhi fa la massaia,
non le riman da costudire il gallo
e quando il calzolaio fu saldato
il sarto gli era dietro preparato.
 

Anche il sarto voi esser contentato,

par che nell'aia faccia sentinella,

col viso giallo par che sia ammalato,

dalla fame gli trema le budella

e resta tutti i giorni senza fiato,

dall'appetito non ha mai favella.

Gli ebbe il povero sarto un quarto solo

perché apparve nell'aia il legnaiolo.

 

« Vi è da impegnare il letto col paiolo »

rispose il contadino a quella gente,

« Gran debito vi è su quello solo,

a poco a poco non mi riman niente.

Venite sempre a darci questo duolo,

non siete mai contenti certamente ».

Contento il legnaiol con mezzo staio

apparve nella corte anche il mugnaio.

 

Il contadin si mise dal pagliaio

nel veder quell'orribile faccenda;

ripete il contadin: « Vieni qua mugnaio,

ti voglio empire un sacco da merenda,
non mi voglio mostrar tanto usuraio rammentati, mugnaio, della mulenda ».

E quando anche il mugnaio fu saldato il macellaro apparve inaspettato.

 

Rispose il contadin tutto sdegnato:
« E mi si agghiaccia il sangue nelle vene,
par che nell'aia vi sia oggi mercato
che ognun va via col gran dietro alle rene».

Rispose il macellar tutto annebbiato:
« Voglio da voi quel che mi si appartiene
Rispose il contadino: « Perdincina,
se la dura così si va in rovina.

 

Non si finisce mai sera e mattina,

della raccolta si riman distrutti

e a battitura ognun si avvicina

grano e granturco qui ne voglion tutti ».

Tutti fanno apparir qualche rovina,

qualche bugia nell'aia inventan tutti,

chi monache, chi frati si vuol fare,

basta che il grano vengano a insaccare.
 

Paion tanti dottori a ragionare

quando nell'aia son dai contadini,

monache, frati e qualche secolare,

poveri artisti, ciechi e poverini.

Non voglio tanta gente rammentare,

mariti, mogli e piccoli bambini;

il contadin fa tutto a fin di bene:

gli manda via col gran dietro le rene.

 

E non finisce mai la processione,

chi fa la cerca d'olio, vino e grano,

di fagioli, di pane e formentone,

di lana, lino, legna e parmigiano.

Ei vorrebbe una giusta riflessione

pei poveri del popolo toscano;

cantano spesso come fanno i grilli

e i contadin non vivon mai tranquilli.

 

Se il contadino per sorte via andasse
e ritrovasse tutta quella gente,
se per mangiar qualcosa gli mancasse
scommetto che non troverebbe niente.
Gli toccherebbe invece andare al gasse
a sentire quel sito pestilente,
se poi girasse per veder qualcuno
se i quattrini non ha, torna digiuno.

 

Il contadin diventa molto bruno,

il contadin fa tanta penitenza,

chi lo soccorra poi non ha nessuno

e spesse volte anche per gli altri stenta. Leggete questa storia qualcheduno

con la mia penna di mia man sì lenta,

son poeta e passai molte colline,

termino questa storia e qui do fine.


 

 

 
     
 

Il Lamento del Contadino

Vi prego tutti, o cittadini,

di ascoltare i poeri contadini

che dopo tanto che si lavora

e mai di pace un abbiamo un'ora.

 

Con la zappa e lo zappone

e lo zaino in sul groppone,

giovani e vecchi tutti armati

noi sembriamo tanti soldati.

 

Si va con la speranza della raccolta,

si spera sempre che sarà dimorta,

poi viene la ruggine e la brinata,

ecco la vita bell'e disperata.

 

Quando la faccenda è fatta
quel po' di grano che si raccatta
e poi vien la battitura
e tutti corron con gran premura.

 

Il primo frate che vien sull'aia

saluta i' capoccia e po' la massaia,

e a sedere si mette al fresco:

lo vole i' grano per San Francesco.

 

Poi c'è i' cappuccino con quella barba

che lui ci viene dopo l'alba,

padre Dionigi e san Gregorio

a accatta per l'anime del purgatorio.
 

Poi c'è la monica con la sacchetta,

lo vole il gran per Santa Elisabetta,

per mantenere l'uso e i' sistema

a i' contadino la raccolta scema.

 

Poi c'è il sensale con la bugia,

lui più di tutti ne porta via,

e con la scusa di vede' la stalla

lo vole i' fieno per la cavalla.

 

Poi c'è i' dottore, i' veterinario,

i' fabbro, i' sarto e i' calzolaio,

la levatrice con i' becchino

e tutti addosso a i' poero contadino.

 

Mangiare e bere a' mietitori

e poi a pagarli saran dolori

e un gli ci corre giù alla lesta

e a i' contadino cosa gli ci resta.

 

Lasciamo sta' queste partite,

ma ce n'è d'altre più squisite

e di tutte quest'è peggiore:

la mezza parte la vole i' padrone.

 

Poi viene i' tempo della vendemmia,

allora sì che si bestemmia,

e li si mette dentro le botte

e li si vende e bonanotte.

Poi si prende un po' di vinaccia,

si fa una botte con acquettaccia

e li si beve tutto l'inverno,

si soffre pene dell'inferno.

 

Poi s'ingrassano de' bei vitelli

e li si vendono freschi e belli

e l'altri mangian le lombate

e noi si mangia testa e patate.

 

Poi c'è la massaia che viene in piazza

con quei be' polli di prima razza

e per rivestire i lor bambini

a casa portano i salacchini.

 

Poi c'è le ragazze fresche e belle

pe' farsi i' letto e le gonnelle

e dietro l'uscio le pongan l'ova

e chi le schiaccia po' nessun le cova.

 

Così successe a' miei finali,

e si sta peggio de' maiali

e si lavora quant'e bboi

e maltrattati siamo sempre noi.

 

 
     
 

Il Bandito

Popolo ascolta un fatto di recente

successo a S. Donato di montagna,

una famiglia di povera gente

se una scena così fu mai compagna. Avevano un podere annualmente

in affitto co' un prete di campagna

che per dieci anni avean sempre pagato

da onesta gente com'era fissato.

 

Alessandro il capoccia vien chiamato

con due figli, la moglie e una figliola,

uno di nome Andrea, l'altro Renato,

Beppa la moglie e la figlia Viola.

Così sta pronto tutto il resultato,

il bandito ci andò con buon parola chiedendo alloggio per la sua intenzione

e gli fu dato senza osservazione.

 

Ecco dopo quattr'anni l'occasione al contadino scemò le raccolte

per via della bruttissima stagione

e la grandine ci ebbero due volte.

Indietro eran rimasti col padrone,

trecento venti lire e non son molte,

ma non potean pagarle - capirete -

se le raccolte le un venian discrete.

 

Ecco che un giorno risoluto il prete

dal contadino là giunse a cavallo,

salì su in casa a disturba' la quiete

dicendo al contadin: « Sie' un pappagallo, dicesti di portarmi le monete,

invece di tutto tu mi mandi in fallo,

pagami insomma in tutte le maniere

di quel che sei arretrato col podere ».

 

Il capoccia rispose: « Per piacere,

l'abbia pazienza caro sor priore,

io l'ho pagato sempre del suo avere

ma ora un posso, mi faccia il favore ».

« Io tante scuse non le vuo' sapere

se non mi paghi vado dal pretore

e te lo giuro che la ti andrà male

e ti cito per man di tribunale ».

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E la famiglia in cerchio al focolare

piangeva per la grande scortesia

e ognun diceva: « Come si fa adesso,

se non si può pagar ci fa il processo ».

 

Ecco senton bussar l'uscio d'ingresso,
era il bandito appunto già arrivato,
fu aperto e salì in casa al tempo stesso
e vide così ognuno addolorato.
E lui rispose allor: « Cos'è successo?
Raccontatemi tutto il resultato ».
« Sì - rispose il capoccia in sua presenza -
il padron vuol quattrini e noi siam senza ».

 

« Perché - dice il bandito all'occorrenza -

per qual motivo mi volete dire,

già che noi siamo in piena confidenza

mi potre' io per voi ben suggerire ».

« Senta, è venuto qua con prepotenza

il prete e vuol trecentoventi lire

che rimase arretrato l'altra volta

quando si perse tutta la raccolta ».


« Come! di questa farebbe sepolta

una famiglia di cinque persone,

penserò io a dargliela la sciolta -

disse il bandito - a questo Cicerone;

così la pagherete questa volta,

ecco un foglio da mille di nazione,

mandatelo a chiamar, ditegli questo:

che avete moneta intera, porti il resto »

 

Allora il capoccia - sì - rispose lesto

e subito mandò il suo figlio Andrea

dal prete e giunse la mattina presto

dicendo: Venga, il babbo la volea

ce l'ha un foglio da mille, porti il resto,

così si pagherà come volea ».

Per la montagna andava pian pianino e alla casa arrivò del contadino.

 

« Venga, venga » gli disse Alessandrino,

così con faccia allegra lo saluta

e scelto prese un bel fiasco di vino

e al prete diede una buona bevuta.

E dopo lo posò sul tavolino

da mille il foglio e vuol la ricevuta

« E lei signor priore qui prepari

seicentottanta lire e siamo pari ».

 


 

« Sì - disse il prete che contò i denari

- io ti stimo pe' un degno galantuomo »

Prese la penna, inchiostro e cartolari,

la ricevuta fece al poveruomo.

Prese da mille il foglio e a occhi chiari

dicendo: « Vale più questo di un duomo».

E disse: « Io ti stimo in cortesia

e finché campo non ti mando via ».

 

Prende il cavallo pien di bramosia

per ritornare dalla sua famiglia

e galoppava la diretta via

e facendo dirette su tre miglia.

Dalla macchia esci fuori sulla via

dicendo: « Va', il denaro si ripiglia -

e disse - Ferma (armato col fucile)

prete sei morto e più non canti il krilie ».

 

« Amico - disse il prete - fatti umile,

dimmi cosa tu vuoi te lo do io,

contro di me non fare un atto vile,

non lo vedi che son servo di Dio ».

« Io non ti uccido se tu siei gentile,

dammi il tuo portafoglio, oh prete pio,

qui prima di parti' da questa frasca e l'orologio e ogni valor che ha' in tasca ».

 

Il prete allor balzò come una lasca

e gli occhi gli sembravan due faville
e disse: «Ohimè, questa è una gran burrasca ».
Si svincolava più che delle anguille.
E con dolore mise mano in tasca
dicendo: « Addio, o mio foglio da mille ».
Orologio e catena, tutto scuote
e dovette partire a tasche vuote.

 

Arrivò a casa con pallide gote
stanco, sfinito e senza fiato
e la serva rispose in queste note:
« Si levi sangue se l'è raffrescato ».
« Stai zitta, non lo dire - disse il prete -
fino a una stilla me l'hanno levato,
nella boscaglia ho trovato un malfattore,
me l'ha levato meglio d'un dottore ».

 

 

 

 

 
     
 

Il Lamento dei Mestieranti

Poeta

Se la Musa protegge il canto mio

il lamento farò dei mestieranti

e del destin fatale iniquo e rio

che due terzi di lor sono ignoranti;

deh! li proteggi tu eccelsa Clio

additali la via d'andare avanti

perché dalle miserie, per quanto odo

cresce la compagnia del santo Chiodo

Fabbro

Io che fra gli artigiani parevo un conte

ora non ho da sfamare i figli;

sono andato da Sterope e Beonte

per chieder a color buoni consigli;

e mi han risposto con parole pronte:

« Bisogna, figlio mio, che tu sbadigli,

o tu mangi tre dì la settimana... »

E questa è proprio carità cristiana!

 

Muratore

Io che guadagno un'opera meschina

quando lavoro e quando non lavoro,

fo lunari la sera e la mattina.

Prima avevo in saccoccia argento e oro, sacco alla madia, e vino alla cantina,

viveo discretamente e con decoro;

ed ora col progresso e con la scienza,

si muor di fame, ma nessun ci pensa!

 

Sarto

Quando costava il gran dodici lire

e che i lavori vi erano ad isonne,

da nessun si poteva comparire,

chi voleva i calzon, chi il paletonnel !

Ora costretti siam dover perire,

anche i signori fan cucir le donne;

e a stare in ozio siamo condannati,

così si dà mangiare agli affamati.

Calzolaro

E' proprio una faccenda maledetta

dite un po' chi saprà trovar la via?

Rincara il pane e il vino in tutta fretta, nessun ci dà lavoro; ognun ci oblia.

Male vanno gli affar, peggio s'aspetta,

s'è rinunziato infino all'osteria...

E in mezzo allo squallor, ed al tormento,

cel mandi buona il Fato e senza vento.
 

Falegname

Io che faccio il mestier del falegname
viveo discretamente e per benino;
ora mi tocca anche a patir la fame
mangiar della polenta e senza vino.
Sol per saziar dei Despoti le brame
siamo condotti al barbaro destino
di dover far la vita del Poeta,
tre giorni mangia, e quattro giorni in dieta.
 

 

Macellaro

Il macellaro che parea un signore

sempre in calesse e pieno di contento,

ora è ridotto in mezzo allo squallore bisogna che dichiari fallimento;

non si guadagna più col suo sudore

il pane, manco a aver molto talento;

e star sempre in bottega, lì al telonio

ci dà fin la ripulsa Sant' Antonio.

Cartaio

E noi che peggio siam dei condannati,

e che abbiamo persino l'aguzzino

in angoscioso carcere serrati

con poca refezione, o senza vino?

Quando al sabato siamo sdrucciolati,

in due, guadagneremo uno zecchino;

toppe ai calzari, e scarpe senza tacchi, condannati a morir poveri e stracchi.
 

Caffettiere

Io che con l'acqua faccio quasi tutto,

fuor che accendere il fuoco e illuminare, eppure anche per me gli è un caso brutto non trovo più la via di guadagnare.

E in mezzo a questo irreparabil lutto

che anche la sussistenza può mancare,

quel dovevam star ben è andato in fumo, siam quasi tutti nel Dazio... consumo!

 

Cappellaio

Noi facciamo il mestier del cappellaio, sentite un po' bella faccenda è questa:

di teste abbiam bisogno, e qui sta il guaio

ci nascon quasi tutti senza testa!

Siamo finiti in certo ginepraio

soltanto una speranza ora ci resta:

che il Lupo mangi quasi tutti gli Orsi.

Noi prenderemo il pelo e lui i discorsi!

Arrotino

L'arrotino è un mestiere maledetto

se non lavora il sarto ed il barbiere;

se il calzolaro non istà al bischetto

il macellaro, il cuoco e il locandiere,

infine tutti questi che vi ho detto

s'hanno miseria (le non son chimere)

è necessario che ancor io ne vada

a giocar di sospir, col due di spada!
 

Tutti

Infin se l'artigian ferme ha le braccia che non può guadagnar neppure un soldo,

si schernisce, si sfugge, si discaccia,

e quei che più ne fa da cieco e sordo,

anzi di vagabondo lo minaccia!

Badate un po' come si sta d'accordo?

Forse ristoreremo le budella

alle nozze di mastro... Pulcinella.

 

 
     
 

Il lamento del Carbonaio

Vita tremenda e vita disperata

chi un l'ha provato un lo po' immaginare,

credo all'inferno un'anima dannata

che così tanto possi tribolare:

tanto è lo spasimo e i' dolore

quella del carbonaro i' tagliatore.

 

Parte da casa ha poco lieto

i' core, si riunisce a soma a diversi compagni;

lascia la moglie immersa in un dolore

e i figli scalzi e ignudi come ragni,

dicendogli: « Se giova il mio sudore

ho la speranza far li bon guadagni,

soccorso vi darò come vedrete,

vi comprerò le scarpe e mangerete ».

 

Inzecca in una foresta e alta e dura,

gli par d'aver trovato un gran tesoro,

gli è lì che tutti insieme ci si adduna

possibilmente ni centro di lavoro.

 

Gli è lì chi di una parte alcuna

forman la cella per il suo demoro,

la fabbrican con legna, terra, zolle e sassi

pare proprio un ricovero de' tassi.

 

Otto mesi si dorme sotto le oscure zolle

co i' capo in terra come le cipolle,

otto mesi bisogna coricarsi

nutrendosi di un cibo più meschino,

pulendo i' cacio un si do venta grassi

per risparmia' se ne mangia pochino.

 

Ora che a' conti ci siamo arrivati,

laggiù il ministro li ha già sistemati;

ci consegnano biglietti sigillati,

par che da pigliar a lor molto gli prema,

quando che gli hanno letti, esaminati,

quello che gli par troppo ce lo scema.

Tutto a utile suo la somma tira,

lo chiude i' conto e i' povero sospira.

 

Essere stati otto mesi schiavi,

pensate un poco come taglian la giubba:

in centonovantanove tutti ladri

fanno a gara fra loro a chi più rubba.

Ritorno a casa stracanato e sfatto,

senza quattrini e con la febbre addosso.

 

 
     
 

Storia di due Cugine

« Gismonda, o cara amata mia cugina,
vedi ch'io mi son fatta monacella,
fatti anche te, non far la contadina
e vieni a far preghiere nella cella:
la vita è un passaggio che presto se ne va
e la gloria di Dio
l'è nell'eternità ».

 

« Merupe, questo a me non me lo dire,
non mi voglio far monaca davvero,
col mio Beppino mi vo' divertire
e non mi vo' serrar nel monastero.
Io giro e mi spasso quanto mi piace a me
e per la vita eterna,
tu ci penserà' te ».

 

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« Merupe, non lo dir, tu siei fallace
perché l'amore al mondo è in tutti i cuori,
piuttosto te tu disturbi la pace,
monaca siei per scansare la croce.
Io lo stringo, l'abbraccio con piena volontà,
Iddio me ne perdona,
ma poi te chi lo sa ».

 

« Gismonda, non le dir queste parole,

non lo vedi che son serva di Dio,

aspetto appunto l'ora che mi vuole

per portar su nel cielo il cuore mio.

Per ora ni' convento a far preghiera sto

e quando sarò morta in cielo volerò ».

 

« Ed io, prima di te, credi ci volo

quando a Beppino glielo bacio il viso;

in cinque minuti soli io mi consolo:

le porte mi apre lui del Paradiso,

la luna, le stelle, tutto mi fa vede'

e te aspetta a morire

per salire nel ciel ».
 

« Gismonda, tu mi hai fatto impallidire

e tu mi hai fatto palpitare il cuore,

trovami un giovanotto, vo' fuggire

là di convento, per fare all'amore.

Lo sento, tu godi tanta felicità,

anch'io son nata femmina,

all'amor voglio far ».

 

« Merupe, vieni pur, non ti rincresca,

che la natura a grande amore invita

perché tu siei gentile, bella e fresca,

non aspettare di essere avvizzita.

L'amore lo sai l'è bello in gioventù,

quando siamo grinzose

nessun ci guarda più ».

 

« Tu dici bene e qui non si cancella,

spogliar mi voglio proprio sul momento,

preparami il giacchetto e la gonnella,

scarpe, pezzuola e con l'abbigliamento ».

Gismonda - Sì - disse e tutto preparò; e la seconda sera

si mise a far l'amor.

 

Con un giovanotto bello, si capisce,
chiamato Gaetano di Palmira;
se non ci abbada bene la lo finisce,
come la calamita a sé lo tira.
Le dice: « Cugina, avei ragione te,
credi che invece d'uno
farei all'amor con tre ».