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Sulla pendice settentrionale
del grandioso cono vulcanico dell’Amiata, ad un altitudine di oltre
mille metri e nella precisa località dove scaturisce la ricchissima
sorgente del Vivo, esiste ignorato e nascosto tra il più folto verde dei
faggi e dei castagni un minuscolo romitorio.
Esso costituisce un interessante esempio di quell’architettura medievale
senese i di cui caratteri romanici, spiccatamente e quasi ostinatamente
locali, si ripetono uniformi in una quantità di piccole e grandi
costruzioni sacre sorte per la maggior parte dopo che, trascorso il
millennio, si allontanava dalla popolazione lo spauracchio apocalittico
del finimondo.
Il piccolo edifizio,disperso
in mezzo ai boschi ed al quale non si può accedere che malagevolmente a
piedi o con cavalcature o tutt’al più con un carro trainato da buoi, è
sfuggito finora alla considerazione degli studiosi. Si sa che esso venne
visitato da Pio II nel 1462 in occasione della famosa ascensione
compiuta dal geniale pontefice nella montagna Amiatina; ma se ne
ignorano affatto successive vicende. Anche il compianto architetto
Canestrelli, tanto accurato nelle sue indagini sugli edifizi medievali
sparsi nel territorio senese, non lo ricorda. L’Inghirami nella sua
grande e minuziosa carta della Toscana, in cui sono segnate delle
località secondarissime, non indica affatto il piccolo romitorio.
Non così il Repetti, il quale
nel suo inesauribile Dizionario geografico della Toscana ne fa cenno, ma
con le sole poche parole " Ermeta, piccolo romitorio diruto situato
fra le Case Nuove del Vivo e la cima del Monte Amiata."
Invece e malgrado tanto
immeritato oblio quella chiesetta, o Ermeta per dirla col Repetti, o
meglio, per adoperare il grazioso ed appropriato nomignolo usato dagli
abitanti del posto l’ Ermicciolo, è un edifizio tutt’altro che diruto.
E’ anzi in discreto stato e ciò è merito dei Conti Cervini i quali ne
hanno il possesso da secoli e che valendosene da padre in figlio come
sepolcreto di famiglia ne curano la conservazione.
I Conti Cervini, tra i cui
antenati fu anche papa, Marcello II zio del neo-beato Cardinale
Bellarmino, risiedono per buona parte dell’anno in un vasto e signorile
palazzo, dalle solide impronte sangallesche, piantato a circa due
chilometri più in basso dell’Ermicciolo, in un gigantesco masso attorno
al quale rimbalza in piccole cascatelle la poca acqua del Vivo residuata
alle sovrastanti opere di presa.
Questo palazzo fu già Monastero dell’Ordine dei Camaldolesi e venne
ceduto alla famiglia Cervini nel 1517 insieme al piccolo Eremo che ne
costituiva un annesso. Tanto la fondazione del Monastero quanto quella
del soprastante Eremo risalgono al secolo XI.
Fu infatti nei primi anni
dopo il mille che l’Imperatore Arrigo I in occasione di una delle sue
discese in Italia si incontrò con San Romualdo, fondatore dell’Ordine
dei Camaldolesi, e ad esso donò un Monastero nel Monte Amiata. Così
leggesi negli Annali del potente ordine religioso ed il Monastero donato
sembra che fosse quello di San Salvatore, passato in seguito ai
Cistercensi. Un anno dopo la donazione fattagli da Arrigo , San Romualdo
, desiderando appartarsi in un luogo affatto solitario per trascorrervi
la quaresima con alcuni suoi più ferventi discepoli, si ritirò nella
foresta nella quale scaturivano le sorgenti del Vivo, ed ivi impiantò un
piccolo eremo al quale presto si aggiunse il sottostante cenobio che poi
si chiamò Monastero di S. Benedetto.
Gli Annalisti assegnano all’incontro di S. Romualdo con Arrigo I la data
del 1014, ossia al tempo della seconda discesa di questo imperatore in
Italia. In tal caso la fondazione dell’eremo del Vivo o Ermeta o
Ermicciolo che si dica, risalirebbe al 1015.
Secondo, invece, il Kronicon
di D. Edoardo Baroncini Camaldolense, tale incontro avrebbe avuto luogo
in occasione della terza discesa dell’esotico Imperatore nella nostra
sempre agognata penisola, ossia nell’anno 1022; ed allora la fondazione
sarebbe avvenuta nel 1023.
Comunque, ciò non altera la data che interessa dal nostro punto di vista
archeologico e che resterebbe adunque confermata nella prima metà del
secolo XI.
La pianta dell’ Ermicciolo è
rettangolare , con abside semicircolare perfettamente conservato. Gli
archetti del coronamento di questo hanno mensole tutte variate e nelle
quattro più centrali vi sono riprodotti in forma arcaica i simboli degli
Evangelisti.
La facciata invece era stata purtroppo quasi interamente trasformata per
una singolare fortuna conservava sempre nella originaria disposizione
alcuni elementi architettonici pochi ma sufficienti per poterne
riprendere con fedele sicurezza tutte le linee.
Fu nell’estate del decorso anno 1923 che, per iniziativa e a spese dei
Conti Cervini , vennero iniziati i lavori di restauro, consistiti per
prima cosa in opere di rafforzamento e di incatenamento nascosto per
assicurare la stabilità del muro e della facciata che presentava varie e
gravissime lesioni.
Liberate poi dal moderno
intonaco le pareti interne e la callotta dell’abside, riapparve anche
dal di dentro la visione completa della struttura a filari di pietra
concia ricorrenti con altezze assortite.
Le pareti sono completamente nude e il paramento di pietra concia è
interrotto soltanto da numerose finestrelle a feritoia ( quattro per
ogni lato) delle quali nei recenti rifacimenti neppure una era stata
lasciata aperta essendosi ad esse sostituiti per la illuminazione
dell’interno tre larghi e stonati lunettoni di cui uno in facciata e gli
altri due sui muri laterali.
Al momento dell’inizio dei lavori nessuna opera d’arte si trovava
nell’interno della piccola chiesa ad eccezione di una preziosa tavola
trecentesca a fondo oro di ottima scuola senese rappresentante la
Vergine col Bambino tra Angioli e Santi.
La soave figura del divino Infante ha lo sguardo di una dolcezza
insuperabile e i due angioli che coronano la delicata composizione sono
toccati in modo veramente magistrale.
Questo dipinto sfuggito miracolosamente alla rapacità dei ladri che
tempo addietro profanarono quel romitorio sperduto nella foresta, è ora
a Firenze alla Galleria degli Uffizi per le necessarie riparazioni.
Seguendo le poche tracce architettoniche rimaste nella facciata è stato
possibile ricostruire tutta la loggetta cieca che la attraversava in
alto da parte a parte con motivo quasi identico a quello della facciata
della Pieve di Corsano; ed anche per il ripristino della lunetta
sovrastante alla porta d’entrata non vi è stato bisogno di lavorar di
fantasia perché un paio di conci dell’arco antico ne segnano con
sicurezza il raggio di curvatura e lo spessore.
Le due colonnette, che ripartiscono la loggia cieca in tre zone con tre
archetti per ciascuna, sono quelle originarie, rimaste per fortunata
combinazione al loro posto malgrado le vicissitudini passate dal piccolo
monumento. E questo particolare è stato un elemento prezioso per il
restauro.
L’Ermicciolo è tutto
costruito con trachite vulcanica locale, la quale, mentre è poco
resistente all’attrito e quindi di facile lavorazione, indurisce invece
con tempo e si mantiene meravigliosamente alle intemperie acquistando
coll’invecchiamento una simpaticissima intonazione bruno-calda. Il
colore prevalente di questa trachite è il grigio simile a quello del
granito di Baveno; ma in tutto il versante amiatino se ne trova, per
quanto in minore quantità , anche di quello tendente al rossastro. E
l’ignoto architetto che nell’undicesimo secolo costruì l’Ermicciolo non
fu insensibile a tale policromia offertagli dai materiali che aveva
tutti a portata di mano, e ne volle qua e là effettuare l’applicazione
come apparisce nei conci alternatamente rossastri e bruni di una delle
finestrelle absidali e come si riscontra nelle due zone di paramento a
quadroni disposti a scacchiera ai lati della porta d’ingresso
provenienti forse dal disfacimento di un piantito.
Le muraglie laterali, essendo state durante i passati rimaneggiamenti
tutte ringrossate per rafforzarle, non presentano ormai nell’esterno
nulla di notevole. Soltanto in quella di destra è stata rimessa in luce
una porta già scomparsa dietro il moderno ringrosso, alta due metri e
larga 75 centimetri, decorata verso l’estremo con due colonnette la di
cui sezione circolare ricorre a guisa di grosso toro anche lungo
l’architrave.
Nessun’altra traccia di costruzione coeva esiste a contatto e neppure in
prossimità dell’antichissima chiesetta. Una piccola stanza di pianta
rettangolare vi fu addossata in epoca recentissima dalla parte di
levante per servire come da ripostiglio di sgombro. Non è da escludersi
che praticando qualche assaggio nel sottosuolo possa riscontrarsi che
tale aggiuta sia stata piantata sopra antiche fondazioni di una
costruzione scomparsa, perché con ogni probabilità l’Eremo deve aver
avuto da quel lato qualche stanza di abitazione in comunicazione con
l’interno della Chiesa per mezzo della porta sopradetta. Un particolare
singolarissimo addirittura enigmatico, si vede a ponente della cappella,
quasi in allineamento con la facciata e circa ad un paio di metri di
distanza. E’ un rozzo scoglio naturale di due metri e mezzo di lunghezza
per altrettanti di altezza e con una larghezza sufficiente perché possa
starvi un uomo in piedi.
Lo scoglio emerge completamente isolato dal verde tappeto del praticello
circostante la Chiesa e si tratta di uno degli innumerevoli blocchi
trachitici che la violenza eruttiva dell’antico cratere disseminò in
ogni parte del meraviglioso paesaggio amiatino.
Preso in se quel blocco non rappresenta nulla di anormale, anche per le
dimensioni affatto insignificanti in rapporto a quelle di tanti altri
giganteschi mammelloni di egual materiale vulcanico, lanciati un giorno
dal mostro a distanze chilometriche fino a raggiungere la pianura
sottostante ove ora ristanno neri ed immobili a sfidare l’eternità.
Ma il piccolo blocco piantato come fida sentinella a lato dell’Ermicciolo
ebbe certamente una destinazione, forse quella di pulpito naturale per
la predicazione all’aperto.
A pochi passi dalla chiesetta
si trovano le strutture di antichi “seccatoi” per le castagne o
meglio, secondo alcuni esperti, il primo nucleo abitativo di Vivo
d’Orcia.
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