Fattoria Gran Ducale dell'Abbadia |
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In Valdichiana, da parte dei Medici e degli Asburgo Lorena, furono impiantate, fra il 1525 e il 1573, 13 fattorie. Queste fattorie, formatesi nei terreni che man mano furono prosciugati, costituirono, di fatto, un sistema territoriale unico essendosi sviluppate, una contigua all'altra, sull'intero fondovalle della Val di Chiana, dal lago di Chiusi sino al Ponte alla Nave, dove in sponda sinistra del Canale Maestro si trovava l'ultimo porto fluviale con annesso un ampio magazzino per lo stoccaggio dei prodotti agricoli.
Aspetti Generali Agli inizi del XVI secolo, la palude che ricopriva l'intero fondovalle raggiunse la sua massima espansione, nonostante gli interventi che gli aretini e successivamente la repubblica fiorentina realizzarono a nord per migliorare Io scarico della Chiana verso l'Arno. Concausa del sensibile aggravamento delle condizioni ambientali della valle sono gli interventi che lo Stato Pontificio attuò nel 1490 a sud, deviando il torrente Tresa e il Rio Maggiore, che scaricavano nel Trasimeno, verso la Chiana a valle di Chiusi e all'altezza del piano delle Cardete. Inoltre, concorse al peggioramento la presenza a nord e a sud di opere di regolazione delle portate, a luce prestabilita, rappresentate da ponti, chiuse e «bastioni», cioè argini, talvolta privi di bocche per fare uscire le acque, che a mo' di dighe sbarravano trasversalmente la valle. Durante i periodi di maggiore piovosità si verificava che le portate in esubero, rispetto all'area della sezione del regolatore, erano trattenute temporaneamente a monte, distribuendosi sull'ampia superficie della palude. Scientemente si operava in questo modo per laminare le piene, perché i governi Toscano e Pontificio furono a lungo convinti che la Chiana contribuisse sensibilmente al verificarsi di eventi alluvionali che frequentemente interessavano le città di Firenze e di Roma.
Soprattutto per queste ragioni la palude si espanse sempre più, per cui le condizioni igienico-sanitarie della valle si aggravarono talmente da costringere il comune di Foiano a cedere nel 1525 al cardinale Ippolito dei Medici i terreni palustri, purché provvedesse a bonificarli. Come contropartita, il comune richiese il versamento di uno staio di grano per ogni staioro di terreno prosciugato. Ne seguirono l'esempio Castiglion Fiorentino nel 1532, Montepulciano e Cortona nel 1533, i quali stipularono la stessa convenzione di Foiano con Giulio dei Medici, che salì al soglio pontificio con il nome di Clemente VII. Solo nel 1573 Chiusi si convinse a cedere alle stesse condizioni i terreni della comunità a Cosimo I dei Medici, divenuto Granduca di Toscana. Quest'ultimo aumentò l'estensione della proprietà acquistando altri terreni, ma soprattutto sequestrando i possessi che Bino Altoviti, facoltoso banchiere fiorentino esule a Roma come fuoruscito, possedeva in Val di Chiana.
Già nel 1447 il comune di Arezzo, impossibilitato a intervenire con efficacia per prosciugare la palude, cede a Donato, figlio di Leonardo Bruni noto cittadino aretino, i terreni della Chiana appartenenti alla comunità. Questi coinvolse nell'impresa altri facoltosi cittadini fiorentini fra cui «...chiamò a parte della spesa e dell'utile molti cittadini Fiore(nti)ni da primi, cioè Luca, Giovannozzo e Fran(ces)co tutti de Pitti, e Niccola Capponi, e più altri gran Maestri...». In documenti successivi compaiono anche altri partecipanti all'impresa: «Madonna Clarice Orsini, donna del Magnifico Lorenzo, i Serristori, i Guicciardini, Soderini, Morelli, Carnesecchi, et alcuni altri d'Arezzo». Con probabilità fu costituito un consorzio fra proprietari con lo scopo di prosciugare le aree palustri della Chiana aretina, che grosso modo coincide con il territorio della valle attualmente ricadente entro i confini amministrativi del comune di Arezzo.
Però solo con l'acquisizione da parte dei Medici della quasi totalità delle terre palustri di fondovalle, avvenuta tra il 1525 e il 1573, si presentarono quelle condizioni favorevoli che permisero di porre mano al prosciugamento della palude e che all'epoca dello Stato romano ne impedirono la formazione. I Medici avevano potere decisionale, risorse finanziare, capacità tecniche e imprenditoriali per portare a buon fine l'impresa. D'altra parte, né le comunità locali, anche se fossero state concordi, né i proprietari, anche se associati, possedevano queste prerogative, ritenute indispensabili per affrontare la soluzione di un problema così impegnativo quale la bonifica delle terre palustri presenti nel fondovalle della Chiana. I Medici e gli Asburgo-Lorena, che succedettero alla dinastia medicea nella guida del Granducato di Toscana, fecero della bonifica delle paludi un obbiettivo prioritario per lo Stato Toscano.
Ciascun podere era affidato per la conduzione al «mezzadro» e alla sua famiglia, a cui erano assegnati la superficie da coltivare e i fabbricati, abitazione e annessi agricoli, occorrenti per l'espletamento dell'attività agricola. La coltivazione dei terreni appena risanati e non ancora appoderati veniva assegnata generalmente ai «mezzaioli», cioè a lavoratori a mezzadria che, a differenza del mezzadro, non risiedevano nel fondo. Invece le terre «a mano», rappresentate dai terreni migliori di colmata, si assegnavano al fattore, come compenso delle sue prestazioni, o venivano condotte direttamente dalla fattoria; in entrambi i casi si usufruiva dell'opera di salariati. Oltre a queste categorie, nella documentazione è riportata frequentemente anche la superficie delle «terre in colmata».
Per
cui, se per ciascuna fattoria si confronta la superficie complessiva con
quella dei poderi, delle terre affidate ai mezzaioli, di quella
condotta a mano e delle colmate, (purché i dati corrispondano allo
stesso periodo temporale) si può ricavare l'indice di appoderamento
raggiunto e quindi in quale stato di precarietà la fattoria si trovasse
rispetto al conseguimento dell'assetto definitivo. Ogni fattoria aveva una gestione autonoma specialmente nei riguardi dell'individuazione dei criteri di conduzione dei terreni e degli indirizzi colturali da adottare. Per gli aspetti di interesse generale e più rilevanti dal punto di vista decisionale, dipendevano da un'amministrazione centrale unica, rappresentata dallo Scrittoio delle Regie Possessioni sino alla metà del XVII secolo, quando furono vendute all'Ordine dei Cavalieri di S. Stefano, le fattorie di Font'a Ronco, di Montecchio, di Foiano e di Bettole. Rimasero di proprietà della Corona, e quindi dipesero dallo Scrittoio, le fattorie del Bastardo, di Frassineto, delle Chianacce, di Paglieti (che successivamente fu divisa, dando origine ad Acquaviva e Dolciano). Dall'amministrazione dell'Ordine, inoltre, dipesero, oltre alle quattro fattorie già indicate, anche quelle del Tegoleto, di Creti, del Pozzo, dell'Abbadia che, ad eccezione della prima, si formarono successivamente per suddivisione delle quattro originarie perché divenute troppo estese per essere gestite correttamente.
Nello stesso anno fu stipulato il contratto di affitto fra lo Scrittoio e Cosimo Maria Berti relativo alle fattorie del Bastardo, di Frassineto, delle Chianacce e di Paglieti. A fronte della corresponsione di un canone annuo di 14.000 scudi, l'affittuario doveva provvedere in particolare: alla manutenzione a proprie spese delle case e delle fabbriche esistenti, alla manutenzione e conservazione in efficienza delle opere di bonifica e a impedire assolutamente che le acque torbide delle colmate scaricassero direttamente nel canale Maestro al fine di evitarne l'interramento.
Nel 1746 furono cedute in affitto ad Aurelio Salvemini le quattro fattorie appartenenti all'Ordine: Font'a Ronco, Foiano, Bettolle e Montecchio. Il Salvemini era il primo firmatario di una società di cui facevano parte autorevoli famiglie dell'aristocrazia fiorentina: gli Antinori, i Capponi, i Bartolommei, i Pecori, gli Albizi. tutti cavalieri dell'Ordine. Ne fu socio anche Pompeo Neri, che nell'Ordine rivestiva la carica di auditore. Per contratto, gli affittuari dovevano provvedere, all'interno di ciascuna fattoria, alla regimazione delle acque superficiali, alla manutenzione delle affossature, dei ponti, della viabilità poderale, delle chiuse, degli argini, dei regolatori, delle cateratte ed in genere dei manufatti idraulici minori realizzati per prosciugare i terreni palustri. Invece la realizzazione di nuove colmate rimaneva a carico dell'Ordine, il quale, tra l'altro, si era impegnato a rifondere agli affittuari le spese sostenute per migliorie che avessero apportato all'interno delle aziende consistenti, ad esempio, nella costruzione di nuove case coloniche, di capanne e annessi agricoli, nella realizzazione di nuove piantate ecc.... Erano però rimborsati solo quegli interventi di miglioria che fossero stati preventivamente concordati fra le parti.
Gli affitti sia delle fattorie dell'Ordine che di quelle Granducali ebbero, in genere, una durata di nove anni con possibilità di rinnovo e si proseguì nell'affittarle sino alla fine del XVIII secolo, quando Pietro Leopoldo decise di riprendere in carico la gestione diretta di tutte le fattorie affidandola alla Segreteria di Stato. In questa scelta rientrano le nomine, avvenute nel 1782, di Benedetto Tavanti a Soprintendente e di Vittorio Fossombroni a Visitatore generale delle fattorie dell'Ordine. Se le motivazioni principali che spinsero nel 1741 il Consiglio di Reggenza ad affittare le fattorie furono, in sintesi, le ruberie e gli abusi commessi da chi aveva fa responsabilità della loro gestione, dopo aver constatato che da parte degli affittuari si operava più per i profitti personali che per l'interesse pubblico, Pietro Leopoldo si convinse a ritornare all'amministrazione diretta dopo essersi reso conto di persona, in numerose visite, dello stato in cui si trovavano le fattorie per essere state concesse in affitto.
Le memorie di quei viaggi, scritte da Pietro Leopoldo, rappresentano una fonte inesauribile d'informazioni. Di seguito alcune sue riflessioni che lo convinsero a ritornare alla gestione diretta delle fattorie e di sottoporre tutti i lavori a una sola autorità tecnica:
«I Castiglionesi si lamentano che gli affittuari dell'Ordine nella fattoria di Montecchio abbiano tenuti i letti dei fiumi Vingone, Celona(e), ecc., non ripuliti e che di lì il rialzamento dei loro letti nel Castiglionese, a segno tale che rompono spesso i loro argini ed inondano le campagne... »"; «...e che gli affittuari pensano al proprio interesse momentaneo e non fanno i lavori necessari alle case, stranano e vessano i particolari ed ì contadini e si rendono arbitrari e prepotenti, non badano alle colmate, direzioni d'acque e fiumi, che per il loro proprio vantaggio, non considerando il vantaggio universale del paese...».
La
fattoria dell'Abbadia Ancora, le colmate interessavano 146,27 ettari e i terreni paludosi ammontavano a 77,44 ettari: nel suo insieme, ciò rappresentava il 33,33% della superficie complessiva, senza considerare la aree occupate dalle strade e dai fossi. Tutto questo fa capire quanto questa fattoria fosse ancora lontana dall'acquisire un assetto definitivo. La superficie a seminativo era distribuita in 15 poderi. I seminativi si trovavano in prevalenza tra il Canale Maestro e il canale della Foenna, che stava colmando i terreni posti dietro gli stessi seminativi.
Fu
necessario intervenire a colmare anche i terreni più arretrati perché
quelli più vicini al canale, avendo raggiunto una quota troppo elevata,
ne rendevano difficile lo scolo. Per questo motivo, durante le stagioni
piovose si verificavano prolungati ristagni d'acqua.
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Torrione. Il Torrione fa parte della fattoria dell’Abbadia che sino al 1861 appartenne all’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano. Fattoria che fu costituita nel 1806 scorporando alcuni poderi della Fattoria di Bettole divenuta troppo ampia per essere gestita correttamente. Il fabbricato si trova al termine della via della Fuga, lungo rettilineo di circa 4,5 km che attraversa quasi centralmente il territorio della fattoria. Asse viario principale su cui fu impostato l'ordinamento dei poderi che furono organizzati sui terreni palustri una volta prosciugati e ai lati del quale furono realizzate, per le famiglie mezzadrili, le case coloniche con i relativi annessi agricoli. Il Torrione è un fabbricato che si distingue da tutte le altre case rurali per la sua altezza e per l'assenza del portico a piano terra e della loggia soprastante, elementi architettonici tipici delle case della bonifica, chiamate comunemente Leopoldine. L'edificio realizzato come struttura al servizio dei lavori idraulici è formato da tre corpi di fabbrica di diverse dimensioni che si elevano uno sopra l'altro in posizione centrale. Il primo partendo è di pianta rettangolare mentre gli altri quadrati. Il corpo più in alto è una torretta a specola sulla cui sommità salivano, mediante una scaletta esterna i tecnici impegnati nel prosciugamento della palude per controllare l'andamento dei lavori. Nel maggio del 1827, durante la visita in Val di Chiana, vi salì Leopoldo II, Granduca di toscana. Venne acquistato, dopo l'Unità d'Italia, dallo statista Bettino Ricasoli per poi passare ad altri proprietari. Segnalato per la sua unicità in un contesto agricolo ancora affascinante nonostante l'industrializzazione delle attività agricole. Vorrebbero trasformare il luogo in un’area espositiva e divulgativa per quel che riguarda la storia della bonifica chianina e della mezzadria. A destra il Podere S. Elisabetta. |