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È un piccolo Appennino al centro della regione, proprio nel cuore della Toscana. Infatti la catena montuosa del Chianti corre parallela alla dorsale appenninica, va anch'essa da nordovest a sud-est, ma lo fa in tono minore, scarsamente competitivo, senza alcuna pretesa, cioè, di voler gareggiare in altezza con i maggiori rilievi peninsulari.
I monti del Chianti sono modesti, s'innalzano fino a
settecento, ottocento metri, non raggiungono mai il traguardo dei mille,
sono in definitiva dei poggi cresciuti più degli altri, ovvero dei
cavalloni più alti e più imponenti di tutte le onde che si agitano nel
mare collinare chiantigiano. Ancora oggi, del resto, pur nella loro diversità, i boschi occupano circa il quarantacinque per cento di un territorio che l'uomo ha continuamente disboscato, smacchiato (lo ha fatto per secoli e secoli) cercando di guadagnare terreno per le coltivazioni agricole, per la vite, l'olivo, il grano, i frutti.
E quindi facile immaginare che anticamente il
territorio compreso tra due grandi fiumi toscani, tra l'Arno e l'Ombrone
senese, dovesse essere interamente coperto da un'immensa foresta, da
folti boschi e intricate macchie, rifugio di una numerosa selvaggina.
Si tratta di monti modesti che non raggiungono i mille metri, ma indubbiamente di eccezionali balconi panoramici sulle più belle campagne della regione. La lunga catena montuosa che separa la vallata superiore dell'Arno dalle storiche campagne vitate del gallo nero è tutta un "belvedere". È un crinale, ma anche una criniera di boschi. Certo, sono soltanto i residui delle selve antichissime, in parte erose dall'attività agricolo-pastorale dell'uomo, in parte falcidiate purtroppo dai molti incendi estivi, ma ancora un ricco patrimonio di verde, ancora una grande fabbrica di ossigeno, ancora un vasto regno della natura: boschi di castagni, querci, cerri, lecci, roverelle, carpini neri, ornielli, pini domestici, marittimi, macchie scure di cipressete, e poi le conifere dei rimboschimenti della Badia a Coltibuono, con abete bianco, cedro atlantico, douglasia, cipresso arizonico. Fustaie e boschi cedui. Sottoboschi intricati di cespugliame, di specie arbustive: corbezzoli, cisti, scope, felci, lavanda, grandi macchie di ginestre. I boschi seguono i crinali, accompagnano i borri e i fossi, si adagiano nei valloncelli, e poi estendono il loro mantello anche ai più bassi poggi chiantigiani, s'infiltrano - con le querci, con i cipressi, con i pini - tra i vigneti e gli oliveti, tra i poderi, i terrazzamenti, i castelli, i borghi, le pievi, circondano le strade, contribuiscono con una formidabile tavolozza di colori (la scalatura dei verdi primaverili, i gialli, i rossi dorati, gli arancioni, le tonalità ocra dell'autunno, le macchie brunastre dell'inverno, i contrasti tra le conifere e le latifoglie) a creare quel fiabesco paesaggio che la natura e l'uomo hanno dipinto nei secoli. Un mondo di boschi, però raramente solitari e selvaggi, perché chi lo attraversa è quasi sempre confortato, accompagnato dalla testimonianza di una presenza umana, antica o attuale, e comunque dalla vista dei casolari, dei borghi, delle ville, delle coltivazioni disseminate sulle pendici montane.
Siamo , è assolutamente vero, in uno dei territori più importanti, affascinanti, famosi del mondo. Tuttavia ridurre il Chianti al solo Chianti, sarebbe far torto alla sua complessità, perché semmai il denominatore comune di queste terre sta nell’accezione alta di ruralità. Che è l’insieme del mondo contadino ancorato alla storia, e dunque alle architetture, insediato nel paesaggio, che è antropicamente determinato, sostenuto dalle tradizioni , che sono il complesso degli stili di vita. Ed è questa percezione di ruralità che costituisce la maggiore attrattiva del Chianti. Si tratta però di una ruralità aristocratica. E non perché il territorio sia punteggiato di titolate magioni, di manieri feudali, o perché qui oggi si dia convegno e abbia scelto di vivere parte della moderna nobiltà (quella dello show-biz, come degli affari e dell’intellighenzia), ma perché è l’eccellenza dei prodotti a determinare questa esclusività. In fondo è il vino ad essere il risultato del Chianti e non viceversa. Accanto al vino questa sapienza rurale ha prima preservato e poi rilanciato l’ulivo, l’olio e la cosiddetta “economia del bosco”, ha recuperato la razza di Cinta senese che oggi costituisce uno dei must dell’offerta gastronomica di questi luoghi. Perfino una misurata pastorizia, che dà eccellenti pecorini, e un limitato allevamento di bovini recupera integralmente il ciclo della produzione agricola. E anche qui: stiamo attenti. Il Chianti non è un luogo dove si “mangia bene” solo perché il cibo è buono e gli ingredienti sono eccellenti, il Chianti affida alla sua cucina un pezzo della sua identità.
Ogni piatto è il risultato della cultura, che
rimanda ancora alla terra e al legame che l’uomo ha stabilito con
l’ambiente preservato forse più che altrove proprio perché più che
altrove vissuto. |
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