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"Amico," scriveva Bettino Ricasoli a Giovan Pietro
Vieusseux dal Castello di Brolio, "l'agricoltura toscana vuole cuore e
testa, la mi sembra un apostolato": parole scolpite nel cuore e nella
testa dei viticoltori che tengono alto il nome del Chianti sulle orme
del grande contadino prestato alla politica.
Nelle
sue sette fattorie, "baron Bettino" riformava tipologia dei vitigni,
struttura dei vigneti, metodi di coltura e tecniche di vinificazione:
razionalizzando la secolare pratica toscana di mescolare le uve
destinate ai vini da pasto, dettava la "formula magica" della bevanda
che avrebbe reso la sua terra vieppiù famosa nel mondo. Per il Chianti
di Brolio volle quattro vitigni: Sangiovese per sette decimi, Canaiolo
per due e Malvasia del Chianti o Trebbiano toscano per il restante
decimo. Sangiovese e Canaiolo, a frutto nero, per donare robustezza e
corpo l'uno, colore e tono - con una "nuance" amarognola - l'altro:
l'aromatica Malvasia e il Trebbiano, a bacca bianca, per dare -specie la
prima - gentilezza al sapore e grazia al profumo. Il perfetto equilibrio
della mistura, basata su vitigni autoctoni o perfettamente assuefatti al
clima ed ai terreni chiantigiani, ove predominano alberese, galestro e
arenarie, poneva per la prima volta in commercio un ottimo vino da pasto
di qualità costante nel tempo: una rivoluzione enologica che, oltre a
fare la fortuna del Chianti in patria, lo imponeva, a cavallo fra
Ottocento e Novecento, come uno dei pochi vini italiani largamente
apprezzati all'estero, grazie anche alla buona resistenza al trasporto.
Il crescere delle imitazioni, perlopiù scadenti, rese necessario
prendere provvedimenti: il 7 marzo 1924 un regio decreto sanciva la
nascita del "Consorzio per la tutela del vino tipico del Chianti", che
ebbe per insegna l'arme della "Lega del Chianti", gallo nero in campo
oro, quale figura nel soffitto del Salone dei Cinquecento di Palazzo
Vecchio, a Firenze. La regione enologica del Chianti, definita nel marzo
1928 e riconosciuta per decreto il 31 luglio 1932, comprendeva per
intero i territori comunali di Gaiole, Castellina e Radda in Chianti,
con parte di Castelnuovo Berardenga e Poggibonsi, in provincia di Siena;
il comune di Greve in Chianti, con parte di Barberino Val d'Elsa, San
Casciano e Tavarnelle Val di Pesa, in provincia di Firenze.
La
Doc sarebbe venuta nel 1967, la DOCG - riservata, com'è noto, a vini di
particolare pregio - nel 1984, a coronamento di un incessante progresso
enologico. Il disciplinare del 1996 riserva la DOCG "Chianti classico"
ai vini rossi prodotti nella zona storica del Chianti, corrispondente
perlopiù a quella definita nel 1932, disponendo l'uso di Sangiovese
(minimo 75%), Canaiolo nero (sino al 10%), Trebbiano toscano e Malvasia
(sino al 6%) e vitigni complementari a bacca rossa sino a un massimo del
15%, con una resa massima di 75 quintali per ettaro e un titolo alcolico
minimo di 12 gradi (12,5 per la riserva, con almeno 3 anni di
invecchiamento). Vini superbi, di color rubino vivace che tende al
granata col tempo, profumo intenso ed etereo con sfumature di mammola e
giaggiolo, sapore asciutto, sapido e giustamente tannico che si fa
vellutato coll'invecchiamento, da servire, fra i 18 e i 20 °C, con
arrosti di carni pregiate, brasati, pietanze a base di selvaggina e
grandi formaggi. Alla DOCG "Chianti Classico" si affianca la DOCG
"Chianti", la cui vasta zona di produzione - la più ampia regione
vitivinicola italiana - comprende oltre un centinaio di comuni nelle
province d'Arezzo, Firenze, Pisa, Pistoia, Prato e Siena: la
denominazione può essere completata dalla specificazione "superiore" e
dall'indicazione della sottozona geografica di produzione (Colli
aretini, Colli fiorentini, Colli senesi, Colline pisane, Montalbano,
Rufina e Montespertoli). L'uvaggio è il medesimo del "Chianti Classico"
quanto a Sangiovese e Canaiolo: variano le dosi consentite di Trebbiano
e Malvasia (sino al 10%) e di altri vitigni (massimo 10%), oltre alla
resa massima per ettaro, fissata in 90 quintali (che scendono a 80 per
le sottozone e 75 per il tipo superiore), e al titolo alcolico minimo,
di gradi 11,5 (12 per i vini dei Colli fiorentini, Montespertoli e
Rufina, nonché per il tipo superiore).
Vini
da tutto pasto, serviti fra i 18 e i 20 C. i Chianti giovani si
accompagnano a primi piatti al sugo e a carni bollite o in umido; se
sottoposti a medio invecchiamento, a carni bianche; invecchiati più a
lungo - purché idonei - vogliono arrosti di carni rosse e selvaggina.
Per quanto la "formula" odierna paia replicare quella del grande
Bettino, vi sono alcune differenze sostanziali, condensate in quei
"minimo" e "massimo": secondo l'odierno disciplinare, infatti, il
Chianti può anche essere fatto di solo Sangiovese vinificato in purezza.
Chi percorra oggi le terre amate dal "Barone di Ferro", le cui gesta
enologiche si tramandano nel celeberrimo marchio del Castello di Brolio,
vanto di queste contrade con altre nobilissime etichette, come Castello
d'Ama, Badia a Coltibuono e, in quel di Radda, Castello di Volpaia,
vedrà gli antichi usi venarsi inesorabilmente di modernità. Osservando i
filari chiantigiani, difficile immaginarli quali erano sino
all'immediato dopoguerra, con le vigne sostenute da tutori "a palo
secco", perlopiù di castagno, oppure "maritate" a sostegni vivi (detti "testucchi",
"chioppi" o "loppi"), quasi sempre aceri ridotti da una sapiente
potatura a due branche
orizzontali
o a quattro disposte a vaso.
I mutamenti hanno interessato anche la
vinificazione: quasi del tutto tramontata è la pratica, tipicamente
chiantigiana, del "governo", ossia l'aggiunta al vino, a novembre, di
una certa quantità di mosto ottenuto dalla pigiatura di uve scelte -
perlopiù Sangiovese, Canaiolo o Colorino - conservate su stuoie per
farle lievemente appassire.
L'aggiunta del mosto provocava una seconda
fermentazione, molto lenta, che, arricchiti i vini giovani d'anidride
carbonica, donava loro il caratteristico "frizzante", ne migliorava la
limpidezza e ne ravvivava il colore, rendendo più spiccata e gradevole
la fragranza e più armonioso il sapore. Il "governo" era riservato quasi
esclusivamente ai vini del tipo "fine", da consumare nel primo anno di
vita: per quelli di tipo superiore, se adatti, vigeva già
l'invecchiamento in botti di legno per almeno due anni che, in rari
casi, potevano diventare anche cinque o sei.
Oggi, per ottenere in tempi ragionevoli vini
armonici ed equilibrati, si sottopongono quelli di tipo superiore
all'affinamento in barriques, piccole botti di quercia ove la
maturazione è accelerata dal ; favorevole rapporto tra superficie ! del
legno e quantità del liquido.
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