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La Valdichiana...com'era

 

 

 

 

 

 

Come si è formata la Valle

Il risanamento

L'organizzazione del podere
Alcune coltivazioni del passato
I mestieri scomparsi
La donna
Immagini dalla Valle
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La Valdichiana occupa parte della provincia di Arezzo e di quella di Siena ed offre con generosità paesaggi verdi e opimi di molti frutti: dal grano a tutti i tipi di foraggio, argentei olivi e gialli girasoli.
Le città sono molto antiche ed hanno nel loro aspetto fisico e nel carattere dei loro abitanti un che di misterioso e inquietante.
Siena non appartiene geograficamente alla Valdichiana, ma alcune delle sue terre che da sempre hanno appartenuto e che tuttora fanno parte della sua Provincia, sono inserite nella valle.

Ne è nato un connubio che ha determinato scambi culturali ed economici come sempre avviene fra due vicini saggi ed illustri che si stimano e possono contare gli uni sugli altri.
Le città più note sono Cortona, Chiusi, antiche lucumonie etrusche, Montepulciano, Foiano, Castiglion Fiorentino, Lucignano, Marciano, Sinalunga, Civitella, comunità ricche di storia e d'arte e altre minori che pur meriterebbero singole citazioni.
I laghi di Chiusi e di Montepulciano che occhieggiano non lontani dal lago Trasimeno, costituiscono altrettanti gioielli della Valdichiana per le bellezze naturali che offrono ai visitatori.

E i boschi, le colline ubertose ricche di acque, di vegetazione, di caccia, di funghi, di aria pulita e dolce. Tanto dovrei scrivere su questa terra che anche oggi, malgrado gli assalti del progresso, della civiltà dei consumi, mantiene le sue secolari bellezze, i suoi inarrivabili profumi.
 

 

 

 

 

 

 

Come si è formata la valle.

Nell'ultimo periodo dell'era cenozoica o terziaria, precisamente nel Pliocene, il mare copriva tutto il territorio dell'odierna Valdichiana ad eccezione delle colline che emergevano dall'acqua; ed è piacevole immaginarle come isole coperte da lussureggiante vegetazione.
Nell'era quaternaria i movimenti tettonici fecero sollevare l'attuale Appennino e successivamente le colline del Chianti , determinando la formazione di un solco vallivo lungo un centinaio di chilometri fra la conca di Arezzo e nord e la valle del fiume Paglia a sud.
Ad est e ad ovest della Valdichiana vi sono appunto i rilievi montuosi che delimitano la valle. La larghezza di essa non arriva a 20 chilometri nei punti più estesi.
L'acqua salmastra andò lentamente a diluirsi nell'acqua dolce piovana che il bacino raccoglieva finché si formò un lago con un emissario che sul tracciato degli attuali fiumi Paglia e Tevere, scaricava le acque nel Tirreno.
L'emissione delle acque e l'emersione delle terre consentì l'insediamento dell'uomo nella valle che nel frattempo si era rivestita di piante e popolata di animali.
La valle stessa era percorsa da nord a sud de un fiume che i Latini chiamavano Flumen Clanis.
Questa doveva essere la situazione idraulica ed orografica della Valdichiana quando gli Etruschi, provenendo secondo Plinio il Vecchio dalla lontana Licia, subentrarono agli Umbri che dominavano la zona.
Una delle città più importanti al tempo degli Umbri fu proprio Cortona, secondo quanto ci hanno tramandato Erodoto e Dionisio. E' un'ipotesi attendibile che nel IV secolo a.C. gli Etruschi, per difendere le terre coltivabili, siano riusciti con un'opera di alta ingegneria a deviare il corso dell'Arno che con le piene sconfinava nella Chiana verso il Valdarno Superiore, tagliando l'imbuto sopra Rondine e liberando così le terre a sud dalle acque del Casentino. Restava il torrente Clanis (detto poi Chiana) posto lungo l'asse principale della valle e raccogliere le acque provenienti dai molti rivi e torrentelli dei colli circostanti. Esso scorreva per circa 60 chilometri dalla Goletta di Chiani, vicino ad Arezzo, fino al Paglia, affluente del Tevere.
Liberate le terre e regolate le acque, gli Etruschi ne assicuravano il deflusso costante con una manutenzione sapiente intesa soprattutto a favorire la pendenza, naturalmente scarsa, del Chiana in modo da consentirgli di ricevere e smaltire l'afflusso a volte rilevante ed impetuoso delle acque provenienti dalle colline circostanti.
Gli Etruschi poterono così contare su di una zona ubertosa che offriva copiosi frutti della terra tanto che la valle fu considerata granaio dell'Etruria. Ciò determinò il sorgere di numerosi e popolosi insediamenti.
Francesco Gamurrini, insigne archeologo morto nel 1923, così descrive la situazione:
"Le colline che sorgono tra il lago di Chiusi e quello del Trasimeno erano popolate di villaggi etruschi i quali furono poi presi e distrutti durante le guerre sillane".
I maggiori dei detti centri, che pare fossero dodici, si denominavano "Lucumonie" ed erano federate per quanto riguarda la difesa e le iniziative verso l'esterno.
Cortona, Arezzo, Chiusi e Perugia erano quasi certamente nel gruppo delle dodici Lucumonie.
Anche al tempo dei Romani la zona fu oggetto di grande attenzione politica ed economica come dimostra la costruzione della Via Cassia che l'attraversava quasi completamente.
Nel periodo medioevale, fra i secoli IX e XI, il generale degrado sociale ed economico influì anche sulla situazione della valle determinando sempre minori interventi di manutenzione dei corsi d'acqua: in particolare l'accumulo di detriti annullò la già scarsa pendenza e capacità di deflusso della Chiana, provocando fatalmente il graduale e progressivo impaludamento dei terreni.

 

 

 

 

 

 

Il risanamento

Intorno al 1350 si hanno notizie di acque morte sulla riva sinistra dell'Arno e di impaludamenti rasenti al Chiana.
A poco a poco tutta la valle s'impaludò e perciò, praticamente, si rese improduttiva, almeno dei prodotti della terra. Il risanamento fu molto complesso sia perché non tutti erano convinti e vogliosi di attuarlo, sia soprattutto perché il problema era tecnicamente di difficile e costosa soluzione.
Per il primo aspetto è da considerare che la palude accanto ai fattori negativi (soprattutto la malaria che non risparmiava nessuno e che era alimentata dal binomio zanzare-acque stagnanti), altri ne presentava di positivi e interessanti. I prodotti della pesca, a volte molto copiosi, quelli della caccia, sempre copiosissimi, erano tali da compensare almeno in parte l'improduttività del suolo. Ed inoltre non tutti erano convinti - in assenza di precise conoscenze mediche e scientifiche - che l'eliminazione dell'acqua stagnante portasse automaticamente alla scomparsa della malaria.
Per il secondo aspetto occorreva progettare importanti opere di risanamento che prevedevano il convogliamento delle acque stagnanti e di quelle piovane in canali dotati di pendenza tale da assicurare lo scorrimento verso la direzione voluta.
I primi che si interessarono al problema furono gli Aretini, verso la fine del secolo XIV, quando ancora erano indipendenti.
Essi progettarono il risanamento della Valdichiana prevedendo la costruzione di un grande fosso per convogliarvi le acque. Fu però la Repubblica Fiorentina, nel periodo in cui anche Arezzo ne faceva parte, a dare l'avvio alla costruzione del "grande fosso": Il Canale Maestro, che doveva attraversare la valle raccogliendo e convogliando le acque.
La questione fu praticamente affrontata dai Monaci di Arezzo che, proprietari di gran parte dei terreni della zona, operarono affinché si realizzasse l'abbassamento della Chiusa, di loro proprietà, così da agevolare il defluire del fiume Chiana in Arno.
I risultati furono assai modesti, ma la cosa più interessante fu l'inversione del corso della Chiana, che a nord di Arezzo diventò affluente dell'Arno. Successivamente Leonardo da Vinci si interessò del problema e disegnò una carta della valle con dovizia di particolari. In essa è chiaramente rappresentato l'impaludamento che comincia a sud di Pieve al Toppo e finisce oltre Chiusi.
Verso la metà del secolo XVI, prima Clemente VII e il Cardinale Ippolito e successivamente Alessandro e Cosimo de' Medici, fecero ulteriori sondaggi e studi cui non seguirono però fatti operativi di apprezzabile rilievo.
Un tale interesse per le terre della Valdichiana era determinato dalla convinzione che con opportuna opera di risanamento e di ristrutturazione del convogliamento delle acque era possibile recuperare e portare all'antica fertilità una valle che era stata produttrice feconda di ogni bene agricolo. Ci si attendevano anche risultati importanti per la salute della popolazione decimata dalla malaria e dalla pellagra.
Infatti anche se le scoperte di G.B. Grassi (1909) erano ancora di là da venire non si sapeva che la malaria, terribile flagello, era diffusa dalla zanzara anofele che faceva delle acque stagnanti la "cuccia" per le sue uova, era già palese che la malattia era connessa con la presenza della palude; e d'altra parte non era possibile recuperare e sfruttare le terre se non si provvedeva a liberarle dalle acque.
Tutte queste iniziative non portarono - allora - ad importanti risultati per mancanza di tecniche adeguate e forse dei necessari mezzi finanziari.
Chi diede un impulso determinante e definitivo ai lavori furono i Granduchi di Lorena di Firenze e fra di essi più di tutti Leopoldo che si avvalse dell'aiuto straordinario del "Grande Idraulico", il ministro Vittorio Fossombroni, aretino (1745-1844), che tracciò il progetto di risanamento integrale incentrandolo su di un principio basilare: invertire le pendenze della valle con ben dirette "colmate" e costruire un'efficiente rete di canali per il deflusso delle acque.
Il progetto venne messo in atto da Federico Cepei, di Lucignano, e da Alessandro Manetti, ingegnere fiorentino.
Ferdinando III di Lorena istituì addirittura la sovraintendenza ai lavori di risanamento e la valle cambiò aspetto.
Quando si potè contare su di un terreno risanato da acque morte, e cioè intorno alla metà del secolo scorso, la terra fu organizzata dividendola in appezzamenti opportunamente dimensionati. Su ciascun appezzamento (il podere) sorse una "casa colonica". Le case erano tutte dello stesso tipo pratico e funzionale. la pianta in genere era quadrata, con portico e "loggia" nella facciata. C'era l'aia per trebbiare il grano e per conservare la paglia, il forno per cuocere il pane, le stalle per custodire il bestiame, ripari areati per seccare l'uva o per la bigattiera; qualche volta il pollaio, il colombaio superiore a torretta e, staccati dalla casa, lo stalletto per i maiali e la concimaia razionale.
A questa unione di officine agrarie, con terreni annessi suddivisi in campi, pronti alla coltivazione, si dava il nome di "podere" e all'unione dei poderi (anche 35) in un complesso a gestione unitaria, quello di "fattoria". Più tardi in qualche podere pilota si costruirono le stalle discoste dalla casa. Esse costituivano una grossa novità che incrementò moltissimo l'allevamento del bestiame.

 

 

 

 

 

 

L'organizzazione del podere

I poderi della Valdichiana erano in genere molto grandi, troppo per essere tenuti da una sola famiglia, anche se molto numerosa; era perciò frequente l'accoppiamento di due o più famiglie che molto spesso si imparentavano; oppure al nucleo originario si aggregavano parenti vicini o lontani.
L'organizzazione economica dell'impresa familiare che reggeva il podere era la seguente: alla vetta della piramide, solitario, quasi sempre fisicamente sconosciuto ai contadini, era il "Padrone" quello che concedeva ai coloni i propri terreni, vi impegnava i propri capitali, raccoglieva i maggiori benefici del lavoro da essi svolto. Egli interveniva nell'organizzazione economica del suo patrimonio agricolo quasi sempre attraverso persona di sua fiducia, esperta nella gestione dell'azienda: il fattore.
Il fattore sostituiva il padrone nella scelta dei piani culturali e degli allevamenti, nella sorveglianza dei poderi, nelle riscossioni e nei pagamenti, nella divisione dei raccolti, nella scelta delle famiglie coloniche in caso di disdetta ecc. Il fattore era scelto anche per le sue capacità di trarre dal lavoro dei mezzadri il massimo frutto con il minimo di complicazioni e di grane. Egli si avvaleva, il più delle volte, di una propria organizzazione di collaboratori.
Poi venivano i mezzadri che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione attiva nei campi. Pochi, pochissimi, erano i piccoli proprietari.
Infine c'erano i braccianti, contadini senza podere, chiamati "pigionali" che formavano una popolazione rissosa, povera e spesso poco onesta. Erano tutti aspiranti mezzadri, ma trovavano gravi difficoltà a risparmiare tanto da potersi mantenere nel primo periodo di prova che andava dalla prima semina al primo raccolto e ch'era di gran lunga il più difficile.
Mantenere la famiglia ed avere fondi necessari per procurarsi gli strumenti agrari non era certo facile; spesso anticipava il padrone con diritto agli interessi.
Il contratto di mezzadria fra padrone e colono era lo stesso in tutta la Valdichiana. Il contratto o "scritta" tra padrone e mezzadro durava un anno agrario, generalmente dal 1 febbraio al 31 gennaio dell'anno successivo, e il 30 novembre era il termine per dare le disdette. Quindi poteva capitare che, dopo un solo anno di permanenza in un podere, il mezzadro fosse licenziato proprio quando il periodo più difficile di ambientamento stava per finire. La notizia, cui nulla poteva essere opposto, veniva resa nota dopo la trebbiatura e cioè proprio in prossimità della data contrattuale per lasciare il terreno. Come rammenta Santa Felici nel suo Saggio popolare in Valdichiana questi mezzadri stavano sempre coll'animo sospeso. Questo in genere.
Nel cuore della valle, e cioè nella zona che era stata bonificata dai Lorena, la realtà dei rapporti fra padrone e colono era ben diversa tanto da determinare un particolare tipo di professionalità anche fra i mezzadri. Il Granduca che dopo la bonifica aveva avviato l'organizzazione dei poderi, aveva voluto che i coloni si sentissero a loro agio nel loro lavoro, convinto che l'amore per la terra e la sicurezza di non perderla ingiustificatamente avrebbe dato ampi frutti nella produttività. La fattoria era per gli "ômini" come la seconda famiglia: firmato il contratto di base, tutto filava secondo le regole non scritte, tramandate di padre in figlio e sempre rispettate.
I fattori, persone intelligenti, ci sapevano fare. Arricchivano legalmente, si contornavano di aiuti validi: la fattoressa, il sottofattore, il terz'ômo, il guardia, lo stalliere, il cantiniere ecc. Sapevano vedere se fra i coloni c'era qualcuno che emergeva e lo sceglievano per qualche incarico di fiducia. L'analfabetismo era pressoché inesistente: frequentare la scuola almeno fino alla terza era un dovere sentito da tutti e le pur rare scuole serali agevolavano i volenterosi che si avventuravano per strade e viottoli pur di raggiungere il traguardo della VI elementare.
Gli agricoltori, contadini in apparenza dal carattere spinoso, scontroso e chiuso, a saperli trattare diventavano d'improvviso aperti e cordiali e la loro conversazione era un gioco sottile, arguto e intelligente.

 

 

 

 

 

 

Alcune coltivazioni tipiche del passato

La canapa

La canapa, "cannabis sativa", pianta annua di origine asiatica, era utilizzata per filari, cordami ecc. La sua coltivazione e preparazione era impegno lungo e delicato, che durava quasi tutto l'anno e che spettava essenzialmente alle donne.
La canapa veniva seminata e poi, d'estate, quando era alta molto più di un uomo, e i fiori maschi appassivano, veniva sdradicata, si facevano fasci che venivano fatti seccare al sole e poi portati - con carri tirati da buoi - al ruscello, al "fosso" o alla "gorga" e messi a bagno per sette otto giorni. I punti di deposito, sempre quelli, venivano chiamati "macerine". Sopra i fasci venivano messi dei sassi come peso per tenerli bene sott'acqua. Passati gli otto giorni i fasci venivano ritirati e messi ad asciugare, una volta asciutti venivano disposti sopra delle assi e battuti con dei bastoni - lavoro durissimo che si protraeva per ore ed ore. Poi con un attrezzo venivano districate le fibre fino a farle divenire fili leggeri come capelli, lunghi anche tre metri, che venivano divisi in tre spessori. La scelta più fina veniva filata la sera a veglia, con la rocca e il fuso. Venivano fatte delle matasse, sbiancate con sette o otto "bucati" con la cenere, quindi dei gomitoli pronti per la tessitura, per farci lenzuola, tovaglie, sottane, ecc. Col più grosso venivano fatti dei sacchi, tascapani, pannucce per il lavoro degli uomini. Con gli scarti, "la stoppa", le corde e le funi.
La canapa oggi non viene più coltivata in Valdichiana, ma le "macerine" rimaste hanno tuttora questo nome. Una di queste macerine era alla Badiaccia, vicino al Borghetto del lago Trasimeno, sulla battigia del lago, grossi sassi, che servivano a tenere sott'acqua i fasci di canapa, giacciono ancora lì, bene allineati.

 

Il lino

E' una pianta annuale "linum usitatissimum" della famiglia delle "linacee".
Ha radice a fittone, fusto cilindrico ben eretto e raggiunge un'altezza di oltre 50 cm. I fiori, delicatissimi, sono celesti. Viene utilizzato essenzialmente quale elemento tessile trattando i fasci di fibre della corteccia del fusto.
L'utilizzazione del lino quale pianta tessile che risale all'età della pietra ( si possono trovare semi di lino nei villaggi di palafitte in Svizzera e nei rivestimenti delle mummie egizie) è tuttora assai diffusa anche se la coltura richiede grande impiego di lavoro e se la trattazione della fibra tessile è assai complessa e delicata.
Una volta raccolte le piante, dopo almeno quattro mesi dalla semina, occorre farle essiccare, pulirle dai frastagli inutili e metterle a macerare nell'acqua mescolata con soda caustica, per consentire il distacco delle fibre dal fusto. Occorre poi un ulteriore essiccamento all'aria, o in appositi impianti ad aria calda, ed è quindi possibile disporre della fibra tessile.
Esiste un'altra importante utilizzazione del lino, quella dei semi che, opportunamente trattati, danno un'abbondante produzione di olio (30-45%) usato nell'industria e soprattutto in pittura quale solvente.
In Valdichiana i semi di lino si adoperavano anche come medicamento. Gli infusi di semi di lino venivano somministrati al bestiame che soffriva d'intestino; ed anche gli uomini ne fruivano quando avevano affezioni delle vie respiratorie.
La coltura era largamente esistente in Valdichiana, specie nei terreni con grande tasso di umidità, ai margini dei canali della bonifica.
Il lino portava lavoro riflesso alle industrie tessili ed a quelle che trattavano i semi. Famosi erano i tessuti misti, a righini azzurri e bianchi fatti con lino e canapa; di essi un fili era tinto in azzurro con il "guado". Era stoffa pregiata, da uomo, tipica della Valdichiana, con cui si confezionavano gli abiti della festa. Oggi la coltura del lino in Valdichiana non esiste quasi più; ed ora a noi, non più giovani, rimangono soltanto alcuni capi di biancheria, dote fatta dalla nonna, fresca e sgusciante, fatta con le antiche fibre di questa preziosa, affascinante pianta.

 

La robbia

La robbia, pianta erbacea della famiglia delle Ribiacee (Rùbia tinctòria) con lunghi fusti, foglie lanceolate e fiori gialli in grappoli, veniva coltivata per ricavarne, dal rizoma, l'alizarina, colorante che serve a tingere in rosso.
Nel "Trattato della Robbia", stampato a Firenze nel 1776, si parla della florida coltivazione della robbia in Toscana e specialmente nel cortonese. Anche per la robbia, come per la canapa ed il lino, si tratta di coltivazione ormai estinta: nelle nostre zone la gente non sa neppure più le modalità di questa coltura.
Quanto fosse diffusa la coltivazione della robbia in Valdichiana fin dal medioevo ce lo testimonia il grande storico cortonese, Mancini. Nel suo libro "Cortona nel Medio Evo" si legge: "La radice della robbia, ricercata e ben pagata, serviva a tingere i panni in rosso. Tanto diffusa e vantaggiosa era la produzione della robbia che, nel 1529, per soddisfare la taglia al Principe d'Orange, il Comune se ne fece consegnare dai cittadini parecchie centinaia di libbre e, con certe qualità di lino, ne trasse scudi 5.000 d'oro".
Sembra quasi impossibile, eppure in meno di duecento anni si era perso perfino il seme di questa preziosa pianta.

 

Il guado

E' una pianta della famiglia delle crucifere (Isatis tinctoria). Prende anche il nome di glasto e veniva coltivata abbastanza intensamente in Valdichiana per essere utilizzata quale colorante.
La pianta è ramosa, glauca, alta fino a 120 cm con piccoli fiori gialli. La foglie contengono un colorante intenso, l'indacano, e da esse, dopo opportuna lavorazione, si trae una materia che colora di un azzurro vivace e gradevole alla vista.
Dopo la raccolta, le foglie vengono messe a macerare nell'acqua subendo una particolare fermentazione che consente la sublimazione dell'indaco. L'estratto che se ne ricava viene trattato con calce e, attraverso controllare reazioni chimiche, produce una poltiglia che viene messa in commercio in palline o piccoli dischi che al momento dell'uso devono essere diluiti in acqua.
Il suo impiego antichissimo si è andato via via diradando per effetto della concorrenza di estratti chimici, più intensi e meno costosi (anche se meno naturali). Oggi la coltivazione del guado si è praticamente estinta.

 

Il baco da seta

Il "produttore" della seta è un lepidottero di colore biancastro, dalle dimensioni di circa 4 cm ad ali aperte, le cui uova originano i bruchi che si nutrono di foglie di gelso. Al termine della fase larvale i bruchi si avvolgono con un sottilissimo filo bianco da essi stessi prodotto, fino a formare un "bozzolo" a pareti rotondeggianti. Se il processo si svolge senza intervento dell'uomo, dopo un certo tempo, l'insetto crisalide che si è trasformato all'interno del bozzolo termina la metamorfosi in farfalla, buca le pareti del bozzolo ed esce all'aperto interrompendo la continuità del filo. Se, invece, l'uomo uccide l'insetto prima che intacchi il bozzolo (in genere con acqua bollente) è possibile recuperare il filo in tutta la sua estensione: è il filo della seta, preziosissimo elemento utilizzato nei secoli per creare le più belle stoffe del mondo.
Il gelso, elemento indispensabile alla coltura della seta era abbondante in Valdichiana; l'allevamento del baco perciò si diffuse rapidamente con grande rapidità e intensità nella zona, creando lavoro e beneficio ai contadini e di riflesso ai tessitori ed ai commercianti.
In Valdichiana, come in molte altre zone d'Italia, si è da tempo praticamente estinto, ucciso dai costi di manodopera troppo elevati, dalle condizioni igieniche non sempre valide in cui si sviluppava (le bigattiere) e che portarono al deterioramento del seme. Ma soprattutto la produzione della seta fu colpita dell'implacabile concorrenza dei prodotti derivati dalla pasta di legno.
Alla fine del secolo scorso il tedesco Donnesmark produsse, industrialmente, tessuti di seta artificiale derivati dalla lavorazione dell'acetato di cellulosa; i tessuti di seta artificiale hanno gli stessi caratteri della seta naturale salvo che nel peso specifico di molto superiore.
Oggi la seta naturale è prodotta solo in alcune zone della Lombardia e del Veneto. E' motivo di rammarico che la Valdichiana non sia nell'elenco delle zone produttrici di tale incomparabile prodotto, che la vide al centro dell'attenzione, anche da parte dei paesi esteri, per l'eccellente qualità della seta che produceva.

 

 

 

 

 

 

I mestieri scomparsi


Mentre nei paesi prevalente era l'attività agricola, nelle città della Valdichiana predominava l'attività artigianale.
Il lavoro conferiva un senso alla vita ed i mestieri erano di ogni specie e tipo: sellai, carradori, mobilieri, fabbri, maniscalchi, ecc.
Il fabbro nella sua fucina era sempre contornato da osservatori attenti, per lo più bambini, ed era una figura quasi irreale, tutto nero, tra fumo e fuoco e gran rumore di colpi di martello sopra l'incudine.
Anche il carradore aveva un fascino particolare, specie quando si improvvisava pittore e decorava il carro con dipinti ingenui e primitivi, raffiguranti immagini di santi, fiori , paesaggi, scene agresti con colori non troppo vivaci, delicati e solari.
Poi c'erano gli ambulanti, che andavano a lavorare davanti alle case di paesi e città. Si presentavano periodicamente nelle aie con tutta l'attrezzatura che il mestiere richiedeva, trasportata con ingegnosità, a spalla o su veicoli anche improvvisati.
Il calderaio col cavalletto, mantice, arganetto per accomodare e stagnare casseruole e paioli; i seggiolai per riparar sedie con paglia e brattee di granoturco, che intrecciavano con pazienza e perizia finché le seggiole alla fine erano come nuove; gli arrotini che raggiungevano anche le case più isolate nelle campagne, spingendo il loro carretto tutto pieno di pedali, ruote, e la goccia d'acqua che cadeva precisa sopra la ruota a smeriglio, a intervalli regolari tra uno spruzzare di scintille; gli spazzacamini che venivano da lontano: dalla Valle di Vigezzo o dalla Val d'Aosta.
Ambulanti anche i cestai, gli ombrellai, i vetrai, che arrivavano annunciandosi con un grido cantilenante, che faceva solo musica, la parola non si capiva mai.
Immagini di un mondo quasi scomparso.
Scomparsi gli scalpellini, i grandi artigiani della pietra che si sedevano accucciati sopra una gamba piegata, poggiando l'altro ginocchio al mento. Scomparsi gli strilloni, i cercatori di cicche, di stracci e i pellai; i venditori di castagne bruciate e ballotte e di castagnaccio, i gelatai con il carrettino, i suonatori di organetto, le guardie campestri e le guardie del dazio.
Scomparse le venditrici della "renina di valiano". Arrivavano in bicicletta, la gonna appuntata con una spilla di sicurezza a mo' di pantalone, una sacchettina di tela di sacco legata al manubrio e un misurino che poteva contenere circa un etto di renina.
"Renina, donne..., renina di valiano", e le massaie uscivano dalle porte con un coccio in mano. In esso conservavano questa preziosa, impalpabile rena adatta a "spurare" le pentole e le posate in ottone.
"'nite troppo de rèdo" (venite troppo di rado) e l'altra rispondeva in un perfetto italiano e con l'accento musicale proprio della sua zona. "O di cosa ne fate donne? La mangiate?".
"No. E' che vo' rasète troppo 'l misurino. Per un vintino ne dète troppa poca. Si 'n piôve, 'nite 'st'altra sittimèna?" (No. E' che voi rasate troppo il misurino. Per un ventino ne date troppo poca. Se non piove venite la prossima settimana?) "Vedrò che cosa si può fare".
C'è oggi un grande interesse per le opere e immagini di ieri, per tante di queste cose ormai tramontate: forse la paura di perderle del tutto.
 

 

 

 

 

 

La donna

La donna era personaggio essenziale nelle faccende agricole e nelle lavorazioni connesse con i prodotti della terra. Essa aveva mansioni importanti ed era tenuta in gran conto in famiglia ove la sua opera era assolutamente indispensabile. In cambio doveva solo un grande rispetto per gli anziani e ubbidienza alle norme della convivenza civile.

Se queste due regole erano seguite, la donna riceveva rispetto da tutti, aveva autorità nelle decisioni e non interferenza da parte degli uomini sulle questioni di sua competenza. La famiglia aveva nella donna un punto essenziale di riferimento che traeva dalla tradizione etrusca e greca i suoi fondamenti.
Nelle origini etrusche le fanciulle erano padrone del loro comportamento e libere di essere anche civette, di farsi vedere a parlare liberamente con chi volevano; le mogli potevano giacere sotto la stessa coperta col marito durante i pasti e godere di una libertà che trovava i suoi limiti solo nella fedeltà e nel rispetto per il marito e per la famiglia.
Ad un certo punto, nella civiltà etrusca, si insinuarono costumi greci portati da precettori reclutati nell'Ellade, secondo le usanze del tempo che riconoscevano alla Grecia superiori livelli di cultura, civiltà ed educazione. I precettori greci inseriti nelle famiglie etrusche, influirono profondamente nelle usanze e nei costumi di quel popolo magnifico ma assai influenzabile.
La donna perdette gran parte della sua libertà e fu costretta a ricoprirsi, a scomparire dalla vita ufficiale, fu esclusa dalle conversazioni con gli uomini e cominciarono i tabù.
Non parliamo poi di quanto è successo negli anni bui del Medio Evo.
Eppure, se guardiamo ancora oggi queste contadine dagli occhi un po' obliqui, dalla pelle mediterranea piena di macchioline, in genere magre, dai movimenti equilibrati che sembrano lenti, si intravede una civiltà che non è mai scomparsa e che si perde nella notte dei tempi.
Che cosa fa essere queste donne così aristocratiche? Dietro un'apparenza dimessa la donna della Valdichiana, qualunque sia la sua condizione, emana un fascino intenso, sottolineato da un'eleganza naturale e unica: i toni bassi della voce, il linguaggio severo ma significativo del corpo, il sorriso raro, ma pronto al momento giusto a increspare gli zigomi alti.
Passato l'oscuro periodo medievale, la nostra donna seppe risalire la china della mortificazione, dei tabù, dell'esclusione dalla vita sociale, fino a riaffacciarsi decisamente alla vita e alle responsabilità. Sia pure con apparenze castigate era di nuovo padrona della situazione, la più forte visto che aveva tanta influenza sugli uomini e sulle loro decisioni, con una femminilità dolce e decisa insieme.
Oltre ai lavori domestici di sua stretta pertinenza, molti lavori dei campi venivano svolti dalle donne alla pari con gli uomini, i quali le escludevano solo da quelli più pesanti.
La falciatura, la semina, la mietitura, la raccolta e la cura del tabacco venivano fatte dalle donne insieme agli uomini.
Altri lavori venivano fatti esclusivamente dalle donne. Ad esempio la responsabilità della canapa, dalla semina alla tessitura della tela; la cura del baco da seta dalla scelta del bozzolo per la produzione del "seme" alla raccolta della foglia di gelso per l'alimentazione del filugello, alla raccolta del prodotto; la sorveglianza del pollaio ecc.

 

Gli ozi invernali

Finché l'economia familiare ebbe nel podere i suoi interessi e le sue motivazioni di ordine socio-economico, nelle serate d'inverno le donne filavano la canapa con la rocca e il fuso alla luce del lume a petrolio o ad acetilene, mentre gli uomini costruivano cesti di "vinco" ("vinco" uguale "vetrice" uguale "salice selvatico") , graticci per seccare i fichi e l'uva al sole, manici di vanga e di zappa, o accomodavano qualche arnese che si era rotto.

I ragazzi si divertivano a fare fiori di granturco come aveva loro insegnato la nonna da piccolini, per farli star buoni. Stavano silenziosi e attenti a quel pugno di chicchi di granturco che, da un momento all'altro, scoppiettando si aprivano proprio come fiori che sbocciano.
I vecchi raccontavano storie fumando il tabacco "rubato" (la Finanza mandava i "contatori" a contare le foglie di tabacco nel campo) nel proprio campo; qualche giovanotto mancava perchè si era recato, percorrendo parecchi chilometri a piedi, al paese, ove si tenevano corsi serali fino alla terza o alla sesta elementare; qualche ragazza che si era fidanzata stava un po' in disparte a parlar piano con il proprio ragazzo.
Si cuocevano castagne "bruciate" o "ballotte", rape o patate cotte sotto la brace, oppure si preparava una tisana per gli anziani, che avevano la tosse. La cucina era pregna di profumi balsamici.
 

 

 

Estratto da:PANE OLIO E SALE - Uno sguardo al passato della Valdichiana - di Bianca Roghi & Maria Luisa Valeri - Editori del Grifo-