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Abbadia San Salvatore
LEGGENDA DI RE RACHIS
"...
una mattina ... Rachis si avventurò, solo, per un sentiero del tutto
ignoto e inesplorato... gli apparve, tutto a un tratto, su un cocuzzolo
un po' fuor di mano, una cerva meravigliosa... Disperatamente la inseguì
lei avanti e lui indietro... Finché si trovò in un bellissimo pianoro,
tutto soffice di erbe e di fiori sotto i castagni ... Fu appunto sotto
il più grosso di questi che la cerva si fermò... Ma subito il castagno
sfavillò... e una voce che non si capiva bene da dove venisse: - Non
uccidere, - gridò - non uccidere, o re, se ti è cara la corona del Regno
Celeste... Rachis... vide che sul castagno come sopra un trono, c'era un
Re differente da tutti re della terra... - Chi sei tu? Chi sei tu? -
mormorava con un filo di voce rimastagli nella gola, Rachis, sempre per
terra senza muoversi. - lo sono il re dei re, il dominatore dei
dominatori io ti comando, o Rachis, di costruire su questo luogo una
chiesa in mio onore! -... Da quel giorno il re cacciatore... si mise
addosso un ruvido vestito di saio, si strinse la vita di una cintura di
cuoio e cominciò a scavar le fondamenta intorno al fortunato castagno...
Siccome lo stare nelle celluzze di legno non era troppo igienico,
pensarono di costruirsi un'abbazia accanto alla chiesa: e l'abbazia
nacque grande, meravigliosa..." (da Idilio Dellera).
Buonconvento
VILLA RONDINELLA
"... La
villa sorge un po' fuori Buonconvento, su una collinetta isolata, lungo
l'attuale S.S. n. 2 Cassia, in antico la via Francigena così ricca di
storia, costruita intorno al 1910 in stile liberty, da un giovane
facoltoso, poco più che ventenne, culturalmente preparato ed anche
sfortunato. Sembra che la Rondinella fosse dedicata ad una donna
sconosciuta localmente, forse a coronamento di un sogno d'amore, che lo
sfortunato giovane non riuscì a realizzare e sembra che la costruzione
della villa abbia assorbito tutte le risorse finanziarie del giovane
signore costringendolo a venderla ad uno zio ancor prima d averla
completata. Forse per la sfortuna che aveva colpito il giovane, forse la
figura idealizzata della giovane donna sconosciuta, alimentarono la
fantasia popolare del tempo che volle la Rondinella invasa da
fantasmi..." (Nello Carli).
Buonconvento
LA
MORT E DI ARRIGO VII
"Arrigo
VII di Lussemburgo cessò di vivere a Buonconvento il 24 agosto 1313:
sebbene la malattia che affliggeva l'imperatore risalisse ai tempi
dell'assedio, la morte di lui colse tutti di sorpresa. La voce di un suo
avvelenamento si diffuse piuttosto rapidamente. Si disse che un frate
domenicano lo avesse avvelenato con l'ostia consacrata durante la
comunione. Solo alcuni anni dopo la sua morte alcuni personaggi che
furono al suo seguito e Giovanni re di Boemia, figlio di Arrigo VII,
confermarono che la morte fu causata malattia."(Nello Carli).
Castelnuovo Berardenga
PAGLIARESE -
LA MAGA DI PAGLIARESE
Presso
la fattoria di Pagliarese, secondo la tradizione, si trovava una donna
in grado di sistemare le fratture e di guarire dalle malattie più
strane. Era una maga "gentile e complimentosa, aveva le mani d'oro ed
era sempre con tanti clienti che sapevano aspettare per ore il loro
turno" (da Biliorsi,
L'ora delle
streghe)
Castelnuovo Berardenga
IL FANTASMA DI
BETTINO
"La nonna
raccontava sempre che la povera nonna sua che era stata al funerale, che
a un certo punto dice, chi portava la bara, a un certo punto, dice, gli
volava, in venti uomini non la reggevano, a un certo punto gli toccava
metterla in terra perché spiombava. Ora poi quando morì, al castello lo
rivedevano continuamente: Dice, c'era una tavola apparecchiata che non
ci stava apparecchiata. L'apparecchiavano e bruummm! Gli buttava in
terra ogni cosa. E allora, insomma, non ci potevano vivere al castello
in questa maniera.
Allora un frate gli
disse: questa è un'anima dannata, non può restare qui, bisogna
confinarla in qualche posto! E allora decisero di confinarla nel borro
delle Ripi". (da A. Orlandini, // fantasma di Bettino, racconto 9).
"Il fantasma (...) io so che lo rivedevano, lo risentivano passa con la
cavalla pe' 'I paese 'I castello, lo poi so che, ho sentito dire che la
su' moglie l'aveva riveduto in camera. Ma sai, cose che io l'ho sentite
dire. Dicevano che lo rivedevano sulle mura a cavallo." (da A. Orlandini,
// fantasma di Bettino, racconto I ).
Castiglione d'Orcia
BLASONI POPOLARI
"Presempio qui noi
e c'è non, e' nomignoli del paese: a la Rocca so' chiamati "gatti"; a
Castiglioni si chiamavano "cani", perché... a la Rocca siccome "gatti"
perché... è era un paese più... riservato, più... astuto, no;
Castiglioni invece è un paese di... chiacchieroni, abbaia, dice, ha
abbaiato come' cani, però ecco no non morde. Poi c'è Bagno Vignoni
chiamavano "serpi" [...] perché c'è l'acqua calda e d'inverno e' serpi e
... trovano tanti serpi giù pel motivo che c'è più caldo [...].
(da Quaderno 2 di Amiata Storia e Territorio intervista di R. Ferretti).
Chiusdino
PALUDE DI SANT'ANDREA
LA PALUDE DELLE STREGHE
A
sud di Chiusdino si trova la palude di Sant'Andrea, un luogo dove,
secondo la tradizione, usavano nascondersi le streghe. "Le streghe si
nascondevano nella palude o nel bosco... si racconta di molti poveri
cristiani scomparsi senza che si ritrovasse nemmeno un osso", (da
Biliorsi, L'ora delle streghe)
Chiusdino
S. GALGANO
LEGGENDA DI S. GALGANO
"... Galgano crebbe
fantasioso e spensierato. La caccia era la sua passione... I giovanotti
dissipati e spenderecci ambivano la sua compagnia. Però nell'ardore dei
suoi giovani anni, Galgano si era dimenticato di Dio... una mattina
d'aprile che erano fiorite le viole sulle prode della Merse e il monte
Siepi era tutto una canzone di rose, egli se ne montò a cavallo lieto di
andarsene verso Civitella a trovare la fidanzata... giunto appena alle
pendici del monte Siepi, ecco che vede sbarrarsi la strada dal luminoso
arcangelo S. Michele. Egli tiene alzata la spada fiammeggiante ed un
globo di sole esce dalle sue pupille... Galgano precipita a terra come
fulminato e non riesce a dire parola... Poi si toglie dal fianco la
spada, la scaraventa contro una pietra. Ed oh, prodigio! La pietra si
apre come una bocca. E la spada vi rimane conficcata a guisa di croce
fulgente. L'Arcangelo scomparve... Da quel giorno Galgano fu l'Eremita
del Monte Siepi." (da Idilio Dellera).
Chiusi
LAGO DI CHIUSI
LEGGENDA DELLA VIA LUMINOSA SUL LAGO
"Era Mustiola dell'imperiale
stirpe dei Claudi. Bella sopra tutte le giovinette romane aveva, non
ancora quindicenne, abbracciata la luce del Vangelo, e scelto Cristo a
suo sposo... Claudio II, suo zio, aveva per lei una specie di fanatica
adorazione... Mustiola viveva piuttosto appartata da ogni divertimento,
da ogni compagnia. L'imperatore allora dubitò che la nepote professasse,
in segreto, quella fede dei cristiani da lui tante volte maledetta e
perseguitata. - Tu sei cristiana?! - le chiese una mattina, pieno di
stizza. Mustiola, alzando la fronte in faccia allo zio, con dolcezza
consueta, rispose: - Sì, sono felice di essere cristiana... - Vattene -
gridò l'imperatore - via lontano da me! - e chiamati i soldati la fece
imprigionare... nella notte una luce abbagliante le rifulse davanti e
una voce dolcissima scendendo dal cielo le diceva: - Và, Mustiola, alla
città di Chiusi e predica il mio vangelo, battezza nel mio nome!...
Brancolando ella si alza: all'improvviso le catene che tenevano avvinti
ai ceppi i suoi piedi, si spezzano, le porte si spalancano, ed ella
cammina sotto il lume delle stelle, nella notte di estate. Appena che,
al mattino, l'imperatore seppe della misteriosa scomparsa di Mustiola,
ordinò ai soldati le più accurate ricerche!... Intanto Mustiola, a
grandi tappe, era giunta nei pressi della città che il Signore le aveva
additato... Quando Mustiola si accorse di non essere più inseguita, levò
gli occhi al Cielo e: - Signore - disse - insegnatemi la mia via... E
subito le brillò nella mente il pensiero di levarsi il mantello, di
stenderlo sulle acque e di salirci sopra come in una sicura barchetta...
il Signore ogni anno rinnova il miracolo della via luminosa sul lago. E
la notte del tre luglio sulle acque si stende una striscia d'oro a
indicare che i Santi passarono nella vita tracciando una bionda
strada..." (da Idilio Dellera).
Gaiole
in Chianti
PIEVE DI SPALTENNA
LA STREGA DI CETAMURAA
Cetamura (toponimo scomparso, ora
riconducibile al territorio della Pieve di Spaltenna) si svolgevano,
secondo la tradizione, riti magici guidati da "una strega bellissima,
che durante il giorno era una signora ben conosciuta e che di notte
sapeva trasformarsi... sapeva far volare tutti oltre la porta. Ballavano
nudi ad una musica misteriosa, riuscendo a vedere cose inimmaginabili."
(da Biliorsi, L'ora delle streghe).
Monticiano
CASTEL DI TOCCHI
LE STREGHE A CASTEL DI TOCCHI
Si racconta che
"c'era un prato che serviva per cerimonie fatte alla luna piena, uomini
e donne venivano incappucciati, una strega dava il via e ballavano in
cerchio... quando si raggiungeva il culmine si sacrificava un animale
giovane, quasi sempre un agnello, mangiando la sua carne cruda usando
solo le mani." (da Biliorsi, L'ora delle streghe).
Rapolano
Terme
SAN GIOVANNI
LEGGENDA DELLA PUZZOLA DEL BAGNO MARII
"Per Sant'Anna,
tanti e tanti anni fa, alcuni contadini trebbiavano. Passò per il luogo
della trebbiatura (il Bagno Marii) una donna e disse:"Perchè trebbiate?
Non sapete che è peccato lavorare il giorno della festa?" I contadini
per tutta risposta ribatterono: "A noi Sant'Anna non ci tribbia". AIIora
il terreno si aprì, i contadini furono inghiottiti dall'apertura e da
quel giorno nacque la Puzzola del Bagno Marii". (tratta da Rapolano e il
suo territorio).
San
Gimignano
LEGGENDA DI SANTA FINA
"... Fina aveva
fatto voto a Dio di soffrire in tutte le sue membra, fuorché nel capo,
tutte le atroci pene che Gesù Crocifisso suo sposo celeste, aveva patito
nella sua passione e morte... E Fina parlava dei misteri di Dio, e non
si muoveva mai dalla solita posizione, amava sentir leggere i libri dei
Santi... Ma il Demonio, nemico giurato dei Santi e dei cristiani, la
tentava con centomila astuzie... Fina tracciava appena un segnettino di
croce e il maligno scompariva... Quando un chiarore d'oro entrò nella
torre di Fina, la fanciulla credette di sognare, ma subito dentro una
bianca nube circondata di angioli riconobbe il dolce aspetto di San
Gregorio, il quale... diceva: - Rallegrati, figlia mia, perchè il giorno
delle tue nozze è vicino, gli angioli e i serafini ti aspettano in Cielo
alla festa!... Ma sulle mura rintronavano colpi di alabarde e di
picconi, e qualche torre veniva giù a pezzi... Dappertutto era rovina e
distruzione, sicché gli ambasciatori a poco a poco domandarono la
resa... Allora tutte le campane cominciarono a suonare senza che nessuno
le tocchi... Gli angioli sono montati in cima alle torri, in vetta ai
campanili e di lassù suonano a distesa: - E morta la Santa! - e cantano
e gridano: - È morta la Santa!" (da Idilio Dellera).
Castello di Grevole
Urla e
gemiti nella notte
Il fantasma
del Vescovo
Crevole, fortezza della Val di Merse, fu, insieme a Murlo, uno dei più
importanti possedimenti della diocesi senese. La rocca, d'origine
antichissima, fu ulteriormente fortificata nel 1325 per desiderio del
vescovo Malavolti e alla fine del secolo Siena v'inviò una guarnigione
che era pagata dalla mensa episcopale. Nel 1380 fu assalita e
saccheggiata dai ghibellini, banditi da Siena. In seguito, durante la
guerra medicea, ospitò il primate di Siena, Donosdeo, che vide la sua
fortezza assediata dalle truppe nemiche. Si dice che il presule irato
avrebbe scomunicato gli assalitori ma questi, per niente turbati, la
presero e la privarono delle artiglierie che furono poi impiegate contro
le mura di Siena. L'anno successivo i Senesi riuscirono a recuperare,
per pochi mesi, Crevole che, nell'Aprile del 1554, fu distrutta dagli
imperiali. Del castello, che aveva due cortine, rimangono pochi ruderi:
un'alta torre sbrecciata e alcuni tratti delle mura ricoperte dalla
vegetazione. Si narra che quei resti celino dei vasti sotterranei dove
sarebbe nascosta una preziosa biblioteca. Una leggenda racconta che di
notte si odono le urla e i gemiti di feriti e moribondi e che, sugli
spalti, appare lo spettro del Vescovo, "con occhi di fiamma e piedi di
brace", pronto a ripetere la maledizione contro chiunque minacci il
castello. La tradizione vuole che il fantasma del presule scomparirà
solo quando la biblioteca, alla quale egli tanto teneva, sarà scoperta e
custodita nella maniera dovuta.
Castello
di Meleto
Gli spettri dei giustiziati
Il teschio
dagli occhi di brace
Il Castello di Meleto è una delle fortificazioni chiantigiane più
interessanti e meglio conservate. Appartenne in origine ai Firidolfi,
nobile famiglia feudale che ebbe numerose donazioni e privilegi
dall'imperatore Federico Barbarossa. In seguito, passato
sotto la sovranità
fiorentina e
trovandosi in una fascia di confine oggetto di continue contese, fu
dotato di nuove e possenti difese. Nel 1478 fu conquistato dagli
Aragonesi che lo tennero per due anni, mentre cinquant'anni dopo
l'impresa non riuscì all'esercito senese - imperiale, per l'accanita
resistenza della guarnigione. L'attuale edificio risale al XV secolo e
presenta una pianta trapezoidale con due torri circolari scarpate che
rafforzano il lato Est, il più esposto. Gli spigoli opposti sono invece
potenziati da semplici ballatoi aggettanti, in laterizio, sostenuti da
archetti e mensole. Quasi al centro del castello vi è l'antica e solida
torre del cassero, a pianta quadrangolare. In origine doveva essere più
alta ma venne in parte abbattuta alla fine del Quattrocento, per poi
essere rimodellata nella forma attuale.
Nel XVIII secolo il castello fu adattato a villa, senza snaturarne
l'aspetto originario. Interessantissimo, all'interno, è l'elegante
teatrino, un vero gioiello del Settecento; sul palco dell'orchestra si
legge il motto dell'Accademia degli Accesi "Panem et Circenses". Su
Meleto aleggiano molte leggende che parlano dei fantasmi di condannati a
morte, giustiziati nel cortile del castello. Si narra anche che, nel
secolo decimo ottavo, fu rinvenuto in un muro un teschio con gli occhi
che fissavano "come quelli d'omo vivo". Il cranio si dissolse quando un
sacerdote lo cosparse con acqua benedetta. In effetti, sembra che nella
cisterna siano state trovate armi ed ossa umane. Un'altra tradizione
vuole che il pozzo fosse collegato, attraverso un cunicolo, al
trabocchetto della torre.
Castello
di Strozzavolpe
Lo spettro della volpe infernale
Il fantasma di Cassandra
Manoscritti e tesori
Preceduto da alti cipressi, il Castello di Strozzavolpe si erge con la
sua mole merlata e l'alta torre, su un'altura isolata, posta di fronte a
Poggibonsi. Questa rocca, dalla pianta quadrata, esisteva già nel XIII
secolo; appartenne prima ai Salimbeni e poi agli Adimari che tanta parte
ebbero nella storia di Firenze. Furono proprio gli Adimari a trasformare
il castello in villa a guisa di un'antica fortezza " [...] co' fossi
intorno, ponte levatoio, mura contornate da merli". Nel secolo scorso fu
radicalmente restaurato, ma sembra che l'edificio attuale riproduca
abbastanza fedelmente quello originale.
Il luogo ove sorge Strozzavolpe è isolato e solitario e ciò contribuisce
a donargli una forte atmosfera romantica, carica di presagi e adatta ad
evocare oscure presenze. Non a caso intorno al castello fioriscono
numerose leggende, come quella di una volpe infernale dall'alito di
fuoco che impediva la costruzione della fortezza, terrorizzando uomini e
soldati. Alla fine, il marchese Bonifazio, vide l'animale che si stava
arrampicando su un albero e con un laccio la strozzò. L'astrologo di
corte predisse, però, che il maniero sa-rebbe esistito fino a quando
quel corpo maledetto si sarebbe conservato. Fu per questo che il
castellano riempì la pelle della fiera :on oro fuso e la nascose nelle
mura del mastio. Secondo una tradizione, ancora oggi, nelle notti di
luna piena, intorno agli spalti : fra i cupi alberi secolari, si aggira
l'ombra della volpe infernale. M narra, inoltre, che colpi sordi e
rumori di catene si odano nella 'casa delle monache", la foresteria del
castello, mentre nella "ca-nera rossa", si sentirebbero i lamenti di
Cassandra, una bella dama infedele, che il marito fece murare viva
insieme all'amante. Mentre i due morivano lentamente di fame il padron
di casa, per rendere ancor più spietata la vendetta, gozzovigliava nella
stanza attigua con gli amici.
A Strozzavolpe non poteva mancare la leggenda di un tesoro e, in
effetti, nell'archivio del castello, si trova un manoscritto pressoché
indecifrabile che indica l'ubicazione di numerosi forzieri colmi l'oro e
di gioielli.
A dire il vero, secondo Giorgio Batini, a Strozzavolpe fu casualmente
trovato un tesoro da un muratore impegnato in certi lavori di restauro.
Un giorno, infatti, fu scoperto un incavo murato di fresco con dentro,
in un orcio, una pergamena semicarbonizzata. Nel frattempo fu notata
l'assenza improvvisa di un operaio che per lungo tempo aveva lavorato al
castello. Si fecero numerose ricerche ma non si trovarono tracce né di
lui né della sua famiglia.
Rocca di
Tentennano
L'apprendimento
miracoloso di Santa Caterina
La "malmerenda"
A Rocca d'Orcia vi è la possente fortezza di Tentennano o Tintinnano,
ricordata in un documento fin dall'853. Dopo aver fatto parte del feudo
dei Tignosi, passò a Siena che, nel 1274, la cedette ai Salimbeni. I
nuovi proprietari intervennero radicalmente sul vecchio castello, che fu
trasformato nel fortilizio ancora oggi visibile. La rocca, è un vero e
proprio nido d'aquila, abbarbicato sopra un dirupo dal quale domina il
paesaggio circostante. Santa Caterina, volendo riportare la pace fra
Siena e i Salimbeni, si recò a Tentennano e durante la permanenza,
miracolosamente, imparò a scrivere.
La fortezza, ben conservata, è suggestiva e d'estremo interesse. Ha una
pianta pentagonale, con piede scarpato ed alte cortine, sul lato
orientale è difesa da una torre a sezione poligonale irregolare che pare
quasi una guglia di roccia. Purtroppo, i restauri del 1975 hanno
alterato il cromatismo originario del paramento senza peraltro
diminuirne il fascino severo e minaccioso.
I Salimbeni, signori di Tentennano odiavano da sempre i Tolomei,
un'altra potente famiglia senese. Tutto li divideva ad iniziare dalle
simpatie politiche, infatti, i primi erano ghibellini, i secondi guelfi
ed ogni occasione era buona per scontrarsi. La situazione era diventata
veramente insostenibile, cosicché nel 1337, nel "Giorno dell'Angelo", si
cercò di creare un'occasione per portare un po' di pace fra le due
consorterie. L'incombenza fu assunta, di buon grado, dai contradaioli
del "Bruco", che organizzarono, fra le vigne, un pranzo al quale
avrebbero partecipato diciotto Salimbeni e altrettanti Tolomei. La
scampagnata pacificatrice si svolse nella migliore delle maniere. I
piatti si susseguirono abbondanti fra la serena soddisfazione degli
astanti, fino a quando fu portato un vassoio con diciotto tordi, una
rarità vista la stagione.
I Tolomei, a quel
punto, presi da frenesia, se ne appropriarono senza riguardo per gli
altri commensali che, irati, misero mano alle armi e li uccisero al
grido "a ognuno il suo". Così, quella che doveva essere la merenda della
pace si trasformò in una strage che originò nuovi odi, rancori e
vendette268.
Ancora oggi una località lungo la Cassia porta, in ricordo della strage,
il nome di "Malamerenda" mentre si vuole che i diciotto Tolomei siano
sepolti sotto una scalinata nel chiostro della chiesa di San Francesco.
Radicofani
La salma dell'usuraio maledetto
Fra le molte leggende tramandate a Radicofani ve ne è una
particolarmente significativa. Si narra che un tempo abitava nel paese
un usuraio senza cuore che aveva ridotto alla disperazione molte
persone. Egli era un demonio incarnato, che stendeva una sorta di tela
nella quale, inesorabilmente, cadeva chi si trovava in difficoltà.
Capitare nelle mani di un simile ceffo significava precipitare in una
specie di incubo: i poverelli erano ricattati, sfruttati, schiavizzati
per il resto della vita.
Quando l'usuraio morì, gli eventi dimostrarono di che pasta fosse: sul
paese si scatenò una terribile tempesta e le strade furono invase da
rospi, raganelle e serpenti. Ma il bello doveva ancora venire. Quando,
infatti, la salma fu condotta in chiesa per l'ultimo saluto, un'oscurità
impenetrabile scese dal cielo, l'aria si riempì di sinistri rumori e le
tombe si scoperchiarono. Allora la gente comprese che il corpo di quel
satanasso non poteva essere
sepolto in terra
consacrata. Pertanto, fu scavata una fossa ai piedi di un olivo ove,
senza tanti complimenti, fu inumato. La malvagità però è un tossico che
avvelena tutto ciò che le sta attorno: l'albero presto seccò e nel legno
schiantato s'insediò un serpente dagli occhi rossi come tizzoni ardenti,
la terra si raggrinzì e divenne nera che sembrava catrame e nessuno ebbe
più il coraggio di passare da quel posto maledetto.
Rocca di
Radicofani
Ghino di Tacco un eroe
leggendario
La Rocca di Radicofani, ricordata fin dal 973, occupa la sommità di una
rupe basaltica, alta quasi ottocento metri che domina il sottostante
abitato. Questa fortificazione imprendibile ebbe grande importanza
poiché controllava la via Francigena sul confine fra Toscana e Lazio.
Appartenne, in un primo momento, ai monaci dell'Abbazia di San Salvatore
sull'Amiata, fu poi cagione di contesa fra vari feudatari e
Siena che, nel
1144, se ne impossessò definitivamente. Ciò non la mise, comunque, al
riparo di assalti e assedi alcuni dei quali coronati da successo.
Durante la guerra di Siena, nel 1555, risultò, invece, imprendibile
tanto che si arrese solo quattro anni dopo Montalcino. A partire dal
1564 fu radicalmente ristrutturata, su progetto di Baldassarre Lanci e
di Simone Genga, sorse così la nuova rocca, a pianta irregolare, con
bastioni di diversa dimensione. Quest'ultima costruzione è ancora
visibile mentre sono pervenute poche testimonianze della cortina che
proteggeva il borgo. Nel XIII secolo s'impossessò di Radicofani Ghino di
Tacco, dei Cacciaconti di Guardavalle. Questo personaggio storico entrò
presto nella leggenda e diventò, già per i contemporanei, una sorta di
"nobile-bandito", simile per certi aspetti ad un nostrano Robin Hood.
Dante lo cita nella
sua opera e Boccaccio lo dice: "[...] per la sua fierezza e le sue
ruberie uomo assai famoso [che] ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma,
e in quel dimorando chiunque per le circostanti parti passava, rubare
faceva a' suoi masnadieri".
Ghino, dopo essere
stato celebre nel Medioevo, tornò di moda nell'Ottocento, quando l'anima
romantica del secolo esaltò le sue imprese fra le quali l'uccisione del
giudice Benincasa, che aveva condannato a morte suo padre. Fu in quel
periodo che il Guerrazzi lo descrisse come "un eroe byroniano e
alfieriano" e che, nel '72, Pietro Aldi lo ritrasse nell'atto di giurare
vendetta. Nel Novecento la sua fama non si stemperò e, negli anni
Trenta, sul «Corriere della Sera», fu pubblicato a puntate un romanzo
storico su di lui.
Vagliagli
Castellare
di San Fedele
Vicino al borgo di Vagliagli nel comune di Radda in Chianti, sulla
collina di San Fedele fu individuata nel 1970 una strana struttura che
interessa l'intero rilievo. L'altura è cerchiata da grandi muraglioni a
secco, concentrici, a pianta ellissoide che degradano dalla sommità fino
alla base, tanto che il colle ricorda un po' la montagna del Purgatorio,
immaginata da Dante: "Il monte che si leva più dell'onda"360.
Strutture analoghe sono state segnalate in area celtica soprattutto in
Francia, in Spagna e in Irlanda. Anche in Italia pur tuttavia vi sono
architetture simili: si tratta dei "castellari" o "castellieri",
probabili testimonianze di villaggi fortificati dell'età del bronzo e
del ferro. Dopo varie considerazioni, si è giunti, comunque, alla
conclusione che San Fedele sia stato un "oppidum"
celtico, sebbene la
cosa lasci alquanto perplessi. Nell'area di Vagliagli sono state
segnalate altre anomalie come, ad esempio, una pietra che reca
un'iscrizione assai singolare in una zona interna; infatti, se la
traduzione è giusta, l'antica epigrafe reciterebbe: "attenzione agli
scogli".
Montalcino
Una fortezza
imprendibile
Un satellite artificiale fra gli angeli
Montalcino è d'origine molto antica, sembra, infatti, che sia stato
prima un insediamento etrusco e poi romano, come testimonia il toponimo,
mons ilcinus, che si riferisce alle estese foreste di lecci (ilex),
della zona.
Nell'814 il castello fu donato dall'imperatore Ludovico il Pio all'Abbazia
di Sant'Antimo poi, nel XII secolo, divenne libero comune. La sua
indipendenza fu però, fin dalle origini, minacciata da Siena che, nel
1201, riuscì a sottometterlo. Vinta ma non doma, la piccola città
riprese la lotta e, con l'aiuto di Firenze, cacciò i Senesi. Questi nel
1260 la strinsero di nuovo d'assedio con ingenti forze e l'intenzione di
chiudere per sempre la partita. I difensori, però, non disperavano e
attendevano con ansia aiuti da parte della taglia guelfa. La loro
fiduciosa attesa tramontò improvvisamente ai primi di Settembre, quando
giunse la notizia che il 4 l'armata degli alleati era stata disfatta a
Montaperti e che la stessa Firenze era caduta in mano ghibellina. Persa
così ogni speranza, Moltalcino si arrese e, da allora, divenne una
roccaforte senese, difesa da un'imprendibile fortezza. La fiducia nelle
sue fortificazioni divenne tale che, quando nel 1555 Siena cadde in mano
di Cosimo, gli irriducibili, contrari alla resa, vi si rifugiarono
assieme a contingenti francesi. Qui costituirono un governo libero che
ammainò la propria bandiera solo quattro anni più tardi, a seguito della
pace di Chateau Cambrésis. La rocca è un raro e ben conservato esempio
di fortificazione medievale, adattata poi all'impiego delle armi da
fuoco. La parte più antica, a pianta pentagonale, fu edificata nel 1361
da Mino Foresi e Domenico di Feo che si avvalsero di precedenti
strutture duecentesche. È dotata di torri poligonali, tre delle quali
sono a difesa delle porte. A queste si aggiunse il mastio, costruito
dopo il 1559, e lo "spalto mediceo", un bastione triangolare progettato
da Simone Genga.
La fortezza non offre curiosità particolari, se non la sua eroica
storia; un accattivante "mistero", invece, si trova nella Chiesa
montalcinese di San Pietro. All'altare di destra vi è, difatti, la
Glorificazione dell'Eucarestia, un dipinto del XVII secolo di
Bonaventura Salimbeni che mostra uno strano oggetto posto fra le figure
che simboleggiano la Trinità. Si tratta di una sfera perfetta, lucida,
di colore metallico, con un riflesso luminoso nella parte superiore;
porta due lunghe antenne, munite di rigonfiamenti alle basi e di
sferette alle estremità, una di queste è presa, con la mano, dal Figlio,
l'altra dal Padre.
L'arnese, assai bizzarro, ricorda da vicino i satelliti artificiali
della fine degli anni Cinquanta come, ad esempio, il Vanguard II
Probabilmente rappresenta il mondo e le bacchette indicano il potere che
vi esercita la Trinità. La cosa è comunque misteriosa, inoltre sono del
tutto inspiegabili altri particolari del quadro, come un cilindretto e
una porzione di cerchio massimo, raffigurate nella parte bassa
dell'opera.
Castelnuovo dell'Abate
La fonte lattaia
Fra le frazioni di Montalcino, chiamate Castelnuovo dell'Abate e
Sant'Angelo in Colle vi sarebbe una rara e preziosa 'fonte lattaia'.
Secondo una tradizione popolare, consolidata e diffusa un po' in tutta
la Penisola, le "finti lattaie", sarebbero sorgenti che avrebbero il
dono di aumentare il latte di balie e nutrici. Si tratta di una credenza
antichissima, impostata su una regola fondamentale della magia: il
rapporto di simpatia sussistente fra simili. In questo caso il mito
nacque, probabilmente, dalla scoperta, in zone carsiche, di stalattiti
dalle quali gocciolava un'acqua lattiginosa per la presenza di calcio.
La similitudine fra tali aspetti geomorfologici e i seni materni,
turgidi di latte, generò la leggenda di fonti miracolose, capaci di
risolvere un problema che allora poteva essere grave. Alcuni
ritrovamenti archeologici hanno dimostrato che già in età neolitica le
"fonti lattaie" erano conosciute, tanto che presso la sorgente di San
Leonino, nel comune di Bucine, è stata trovata una statuetta con grandi
seni. Con tutta probabilità si tratta di una sorta di ex voto, vecchio
di diverse migliaia di anni. Gli Etruschi poi tennero in grande
considerazione le "fonti lattaie", tale credenza fu quindi ereditata dai
Romani che la trasmisero al mondo cristiano. Nel medioevo vi fu un
processo di acculturazione e le sorgenti taumaturgiche divennero tali
per un evento miracoloso.
Monteriggioni
I giganti infernali
II lago scomparso
Monteriggioni, già importante in periodo etrusco, divenne nel
Medioevo un
antemurale a difesa dei confini settentrionali di Siena che, preoccupata
per l'espansionismo fiorentino, pensò di fortificare la collina di
Monteriggioni. Fra il 1213 e il 1219 fu, pertanto, elevata una cerchia
di mura, lunga ben 560 metri e munita di quattordici torri.
I Fiorentini, nel 1232, chiesero inutilmente che la piazzaforte fosse
demolita, poi, nel 1254, provarono invano a conquistarla. Solo i
fuoriusciti senesi riuscirono, per due volte, ad averne ragione e, nel
1554, le vecchie mura si sarebbero fatte di nuovo onore se il marchese
di Marignano non avesse corrotto il traditore Giovannino Leti, che aprì
le porte.
Monteriggioni ha mantenuto pressoché intatta la sua cinta con le
numerose torri, scapitozzate per necessità difensive con l'avvento delle
armi da fuoco.
L'andamento delle mura è grossomodo circolare, il che non doveva
costituire una soluzione particolarmente felice, in quanto impediva una
difesa adeguata delle cortine. All'interno una via collega le due porte,
dividendo simmetricamente l'abitato, costituito da piccole case in
pietra e dalla chiesa parrocchiale in stile romanico-gotico.
Questa eccezionale città fortificata colpì la fantasia di Dante che
forse proprio qui seppe, nel 1302, che era stato bandito. Da quel
momento fu un esule costretto a spostarsi di città in città, di castello
in castello, ma sicuramente rimase vivido in lui il ricordo di
Monteriggioni, tanto da paragonarne le torri ai giganti delle bolge
infernali, come si legge nel XXXI Canto dell'Inferno: "Però che come
sulla cerchia tonda / Monteriggion di torri si corona / così la proda
che il pozzo circonda / torreggiavan di mezza la persona / li orribili
giganti, cui minaccia / Giove dal cielo ancora quando tona".
Murlo
DNA degli Etruschi
Il terribile Baicche
Murlo, che si erge su un'altura isolata di 317 metri, fu, fin dal 1189,
un feudo della diocesi di Siena con numerosi privilegi e diritti che
vennero limitati solo nel XIV secolo. Era allora un borgo murato, difeso
da una cortina quasi circolare ed era presidiato da una guarnigione che,
pur dipendendo dal vescovo, operava in nome di Siena. Il suo stato
giuridico di terra soggetta alla Cattedrale, lo mettevano al riparo da
molti rischi; solo durante l'assedio di Siena fu investito dagli
eserciti ispano-medicei e subì gravi danni. Sotto il Granducato di
Toscana le cose non mutarono, Murlo rimase feudo diocesano, mantenendo
tutti i privilegi fra i quali quello dell'extraterritorialità. Ciò ne
fece, fino al 1749, un'oasi per ricercati e contrabbandieri che, fra le
sue mura, erano al sicuro da sbirri e condanne.
Il borgo è assai interessante e ben conservato, rimangono ancora due
porte, la chiesa di San Fortunato e il palazzo vescovile, chiamato
"Palazzone", costituito da varie costruzioni che, nel tempo, si sono
addossate alla rocca medievale.
In questo edificio ha sede un piccolo museo etrusco con reperti
rinvenuti nei vicini scavi di Poggio Civitale. Qui, fino al 590 a.C, si
trovava un grande insediamento agricolo, con tanto di tempio dedicato
agli dei familiari. Particolarmente interessanti sono le statue fittili
di uomini, cavalieri, sfingi e gorgoni. Notevoli anche alcuni oggetti di
piccole dimensioni in metallo prezioso, osso e argento e un balsamario
d'alabastro. Sembra, inoltre, che a Murlo gli Etruschi abbiano lasciato
anche un'impronta genetica. La scoperta di una traccia etrusca nel
sangue dei Murlesi è risultata da una ricerca condotta dalle università
di Stanford in California e di Torino. Lo studio ha dimostrato una
difformità fra il DNA di tale gruppo etnico, da sempre abbastanza
isolato, e quello della maggioranza degli italiani: sarebbe questa
l'estrema eredità dei misteriosi Raseni. Il 13 Febbraio del 1870,
nacque, nei pressi di Murlo, uno dei più celebri briganti toscani
dell'Ottocento, Giovanni Turchi, detto Baieche. Egli era un onesto
calzolaio, col difetto di guardare un po' troppo le donne e, nel 1892,
s'invaghì di una bella signora di nome Candida Maggi. La donna,
felicemente sposata, non voleva saperne del ciabattino che deluso fu
preso da un odio feroce. Così, dopo averla minacciata, la mattina del 15
Agosto del 1892, la ferì con tre colpi di pistola. Da allora il Turchi
si dette alla macchia e terrorizzò l'intera valle dell'Arbia. Rubò,
rapinò, ricattò e soprattutto uccise. La prima vittima fu la povera
Candida, poi toccò ad una certa Rosa Pieri, rea di "aver parlato male"
di lui. Finalmente, nell'Ottobre del 1897, fu catturato e condannato
all'ergastolo dal tribunale di Siena.
Monte
Siepi
La spada nella roccia
A dominio della celebre abbazia di san Galgano, sull'altura di Monte
Siepi sorge la chiesetta che Galgano Guidotti avrebbe costruito nel
1180. Si tratta di una costruzione interessante, a pianta centrale e dal
campaniletto a vela, che presenta una leggiadra bicromia dovuta
all'alternarsi di cotto e conci in travertino. Ma ciò che affascina di
più è, al centro della costruzione, un masso con una spada conficcata.
Secondo la tradizione Galgano, cavaliere di Chiusdino, convertitosi alla
fede, infilò nella roccia la spada per poter adorare la croce dell'elsa.
Gli apparve allora l'Arcangelo Michele che lo confermò nella vocazione,
dopo di che il redento condusse in santità una vita eremitica. L'arma
che oggi si vede in una cavità del pavimento, protetta da una lastra di
vetro, non è l'originale che fu spezzata nel tentativo scriteriato di
estrarla dal macigno.
La storia agiografica di San Galgano è affascinante anche perché
richiama alla
memoria la leggenda arturiana di re Uther, che non avendo eredi, lasciò
il regno a chi avesse estratto dalla roccia la spada che vi aveva
conficcato.
È interessante notare come il nome Galgano riecheggi quello di Galvano,
un protagonista nella saga della "Tavola rotonda"; non sfugge inoltre il
fatto che il Santo di Chiusino visse nel periodo che vide diffondersi la
letteratura cavalleresca. Nella chiesa di Monte Siepi, oltre alla
celebre arma vi è un'altra singolarità che non tutti notano. Dietro
l'altare vi sono due mani mozzate, secondo la tradizione furono
strappate da un lupo ad uno degli "uomini neri" che, nel 1181,
distrussero la capanna dell'Anacoreta.
(Tratto da:
- La Toscana dei misteri - di Luigi Prunetti) |
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