Lignite
La lignite è un tipo di carbone giunto in uno stadio del processo di carbonizzazione più avanzato rispetto alla torba. La lignite attualmente presente sulla Terra si è formata dai resti organici delle foreste del periodo cenozoico ( 65-5 milioni di anni fa ). Si presenta come un materiale solido e ha un colore marrone scuro. Per la sua colorazione nel commercio internazionale è anche conosciuto come carbone marrone ( brown coal ). Essendo un carbon fossile geologicamente recente il processo di carbonizzazione nella lignite è ancora incompleto. La lignite conserva ancora la struttura legnosa. Le principali tipologie di lignite sono le seguenti:
Lignite torbosa. È una lignite nel momento di passaggio dallo stadio di torba a quello di lignite. È di colore bruno/marrone scuro. È caratterizzata da un elevato tasso di umidità.
Lignite xiloide. È una lignite compatta e ricca di componenti legnosi. Ha un colore tendente al marrone chiaro. Il tasso di umidità è generalmente superiore al 40%.
Lignite picea. È una lignite compatta di colore nerastro. Il tasso di umidità è compreso tra 20% e 25%.
La lignite è classificato come un combustibile di scarsa o limitata qualità. Il suo potere calorifico è di circa 4500-6000 kcal/kg. Il contenuto di carbonio nella lignite è maggiore rispetto alla torba e può arrivare fino al 70%. La percentuale di acqua è di circa il 21%. Nella lignite è ancora molto elevata la concentrazione di zolfo e, per questa ragione, è classificato tra i combustibili molto inquinanti. La lignite è utilizzata prevalemente per la produzione di gas, ammoniaca e petrolio sintetico.

 

                 Le miniere di lignite

                di Montefollonico

 

"... In un podere (. . .) detto la Casa nuova vi era una cava di carbon fossile, dal volgo chiamata Legno Sasso, presso la quale negl'anni 1750 da' pastori, nel tempo d'inverno, fu acceso il fuoco, onde s'incendiò, e continuò d'ardere, 16 mesi. Di questo ve ne sono altre vene (.. ) del quale i contadini, per esser lontani da' boschi, si servono per scaldare i forni".
Così il Pecci annotava alla metà del '700; dovette passare più di un secolo perché il giacimento di lignite vicino a Montefollonico, frazione del comune di Torrita di Siena, venisse sfruttato razionalmente, collocandosi come attività rilevante della zona, accanto alla tradizionale attività agricola.
Infatti, ancora intorno al 1870 il Sindaco di Torrita descriveva in questi termini la situazione economica del paese: "Il comune di Torrita è essenzialmente e può dirsi quasi esclusivamente agricolo (...) e non può essere a meno ognora che si rifletta aver noi un territorio che rende favorevolissime le condizioni della nostra agricoltura; la sua qualità (...), la sua giacitura pianeggiante e con dolce declivio lo rendono in modo speciale atto alla produzione ...".
Cereali, vino e olio erano prodotti in abbondanza se si considera che funzionavano cinque molini, di cui uno a vapore e quattro ad acqua, e ben sette frantoi.
L'allevamento ovino e vaccino alimentava una certa produzione di formaggi ed esportazione di bestiame. L'allevamento dei bozzoli, introdotto da poco, rendeva possibile il funzionamento di una "filanda da seta", mentre circa tredici tessitrici "fanno panno di canape e simili, tessono ancora ma raramente coperte di lana e cotone ed in filaticcio" ; la filatura veniva fatta a mano e "quasi ogni famiglia colonica ha un telaio per uso privato".
Un'economia, perciò, semplice e prevalentemente volta a soddisfare esigenze familiari e paesane. Rapporti commerciali esistevano con la "piazza di Siena", ma l'attività agricola era alla base della vita del piccolo comune, attività che avrebbe potuto acquistare maggiore forza e produttività, come affermava il Sindaco, se fossero state curate in maniera adeguata la situazione idrica, quella fiscale e le comunicazioni ferroviarie.
 

 

 

Non compaiono in questi anni attività industriali di qualche importanza, né si fa cenno, nei documenti dell'epoca, all'esistenza di impianti minerari.
La prima notizia sulle miniere del comune di Torrita di Siena si ha nel 1877. Si tratta di due prospetti ad uso statistico nei quali viene registrata l'esistenza di una cava di rame e manganese ad Oppiano, solo conosciuta, di proprietà Petrucci-Bargagli; di una cava di lignite ad Orbigliano, solo conosciuta, di proprietà Mucciarelli; di una cava di pietra serena a Rotelle, in attività con tre operai, di proprietà Francini.
Del primo e terzo impianto non si hanno più notizie nei documenti seguenti, per cui si può ritenere che l'uno sia rimasto inattivo e che l'altro abbia avuto scarsa o nessuna importanza nel quadro delle attività del territorio.
Per quello che riguarda la cava di Orbigliano, non la si trova più indicata con tale denominazione, ma in tutti i documenti si parla sempre delle cave di "Casanova" o "Casanovoli" e di "Renello" o "Renellone". Si può pensare che, stando i due poderi di Casanova e Orbigliano l'uno attiguo all'altro, i giacimenti lignitiferi lì esistenti venissero indicati con l'una o con l'altra denominazione, indifferentemente, finché prevale e si consolida negli atti ufficiali la dicitura di "Casanova".
Si parla invece di Orbigliano nelle testimonianze di ex minatori e in uno studio sulle miniere di Montefollonico del 1918, come di un cantiere del vasto impianto di Casanova e Renello.
La vera e propria attività mineraria ha inizio negli anni ottanta. Nel 1884 viene messa in opera la miniera di Renello o Renellone e nel 1892 quella detta Casanova o Casanovoli, nel territorio fra Montefollonico e il comune di Trequanda, presso la strada provinciale di Torrita.
Si trattava di due impianti con escavazione in galleria per una produzione annua di circa 1500 tonnellate di lignite xiloide; in ciascuno di essi erano occupati circa venti operai.
I terreni erano di proprietà di alcune famiglie di Montefollonico: i Marselli e i Landucci della zona di Renello, i Mucciarelli di quella di Casanova.
La gestione delle miniere invece è affidata, fin dall'inizio dell'attività, alla ditta "Grazi F. & Fratello" di Sinalunga, ditta "veramente notevole" se si considera che estendeva i propri interessi, sempre nel comune di Torrita, anche ad una cava di calcari, ad una fornace di calce e laterizi e ad un molino a vapore; era inoltre proprietaria, in società con il signor Magini di Torrita, di una Vetreria, aperta nel 1895, ed aveva la direzione della succursale dello Stabilimento Tipografico Fumi e Catèri di Montepulciano, esistente a Torrita.

Per tutto lo scorcio del secolo e nei primi anni del '900 le miniere rimasero sotto la direzione del Grazi: una ventina di anni durante i quali l'attività e la vita stessa delle miniere sembrano non registrare mutamenti o avvenimenti di qualche importanza. La documentazione è, a questo proposito, abbastanza avara di notizie.
Sappiamo che la lignite estratta veniva "in gran parte esportata o per mezzo di veicoli o per mezzo di ferrovia e soltanto una piccola parte viene conservata pel luogo per una fornace da mattoni e da calce e per un mulino a vapore".
Non sappiamo invece come venne accolta dalla popolazione locale l'apertura della nuova attività, nuova per la zona, e come vi si adattasse. Si può ragionevolmente pensare, comunque, che abbia avuto un'accoglienza favorevole in quanto costituiva pur sempre una buona occasione di lavoro e di guadagno. Mentre si hanno ampie testimonianze della preferenza accordata al lavoro minerario, in confronto a quello agricolo, durante il '900.
Per tutto questo primo periodo troviamo occupati, in ciascun impianto, circa venti operai ordinari e una decina di straordinari, di età fra i sedici e i cinquant'anni.
I rapporti di lavoro non erano regolati da contratti né vi erano tariffe da rispettare: i lavori venivano concordati verbalmente e settimanalmente. Solo per la miniera di Renellone esiste notizia di un'assicurazione degli operai contro gli infortuni a cominciare dal 1894.
Nel 1907 la conduzione della miniera di Casanova passò alla "Società Anonima Ligniti di Montefollonico", costituitasi a Firenze in quell'anno, che iniziò con veri criteri industriali lo sfruttamento della zona lignitifera di Montefollonico.
L'impianto di Renello rimase ancora per qualche tempo amministrato dalla Ditta Grazi.

 

La "Società Anonima Ligniti di Montefollonico"

 

Della "Società Ligniti" non si hanno notizie precise: sappiamo che il presidente era un certo Moriani, direttore generale l'ingegnere Dauphiné, direttore tecnico il geometra Ettore Gonnelli, personaggio, quest'ultimo, presente per molti anni nelle vicende delle miniere.
Quanto alla scelta della zona lignitifera di Montefollonico, il presidente della Società così spiegava al Sindaco di Torrita di Siena in una lettera del 1908: "Noi abbiamo avute molte sollecitazioni e facilitazioni da altri Comuni vicini per svolgere nel territorio dei medesimi la nostra industria, tuttavia la maggiore vicinanza della Stazione di Torrita di Siena ci farebbe propendere a impiantarci nel territorio di Codesto Comune ...". Chiedeva, quindi, "concrete facilitazioni" all'Amministrazione Comunale in funzione di un processo di sfruttamento più razionale e più produttivo degli impianti esistenti. Il nuovo impulso che la "Società Ligniti" intendeva imprimere all'attività mineraria torritese, anche attraverso un ampliamento e rinnovamento delle strutture interne e di appoggio della miniera di Casanova, si scontrava con la inadeguatezza delle strutture esterne che non rispondevano ai nuovi criteri di sfruttamento e commercializzazione della lignite.
Un carteggio abbastanza vivace e ricco tra la stessa Società e il Comune di Torrita di Siena nell'anno 1908 testimonia lo sforzo intrapreso e i problemi incontrati dalla nuova gestione.
La difficoltà più grave era rappresentata dalla mancanza di vagoni per il trasporto del materiale verso le zone di vendita e dalla angustia del piazzale ferroviario. A questo proposito, la Società chiedeva al Comune "che (...) ci ottenesse compromessi terreni per venti o trentamila metri vicino alla Stazione in modo da potere avere il raccordo ferroviario, a prezzi ragionevoli (...), appoggio con qualche voto presso la Direzione Generale delle Ferrovie pel miglioramento del servizio, ingrandimento della Stazione di Torrita di Siena e perché non manchino i carri ...".
Malgrado l'interessamento del Comune, la questione si protrasse insoluta per molto tempo, creando un disagio tale da procurare alla Società "la minaccia di cause per danni da parte della nostra clientela alla quale non abbiamo potuto fornire il combustibile nelle quantità contratte", che portò ad interrompere momentaneamente l'estrazione della lignite con il conseguente licenziamento di centosessanta operai, tanti erano occupati nel 1908 nella miniera di Casanova.
Si trattò indubbiamente di un provvedimento grave per l'occupazione locale che provocò l'interessamento delle autorità, preoccupate di possibili disordini popolari.
La situazione, peraltro, rimase sotto controllo e la sospensione dell'attività fu di breve durata. I lavori ripresero pur non essendo stato risolto il problema ferroviario. Altre esigenze, accanto a queste, erano avvertite per uno sviluppo industriale del settore. La Società chiedeva l'interessamento del Comune anche "per assicurarci sorgenti di acqua e la possibilità di condurla; esenzione di tasse e soprattasse comunali per almeno dieci anni per esercizio di nuove industrie, fabbriche industriali, case operaie e simili; miglioramento del servizio postale e telegrafico (...); appoggio per consumo di energia elettrica per luce e forza nel Comune e nei Comuni limitrofi... ".
Il Consiglio Comunale, riunitosi il 9 giugno del 1908, accoglieva favorevolmente tutte le richieste della "Società Ligniti", dichiarando la propria disponibilità ad appoggiare il rilancio della attività mineraria e l'apertura di nuove eventuali industrie. Peraltro, qualche tempo dopo, il Sindaco ritornava sopra la questione confermando la volontà del Comune di "concorrere moralmente e materialmente allo sviluppo delle loro industrie", ma chiedendo, nel contempo, formale assicurazione che gli impianti "avranno luogo nel territorio comunale", precisando di sostenere tale sviluppo in misura proporzionata all'entità degli impianti stessi.
La disponibilità espressa dal Comune incoraggiò indubbiamente la "Società Ligniti" a potenziare gli impianti interni "per portare occorrendo la produzione a duecento tonnellate al giorno". Venne infatti sostituito tutto il materiale dei piani inclinati con altro di maggiore forza, installata una motrice più potente, materiale rotabile, ecc..
I risultati di questa intensa opera di ammodernamento non si fecero aspettare: nel 1912 la Società poteva affermare con soddisfazione di aver aumentato la vendita del prodotto di "un buon terzo".
Proseguendo nell'opera di rafforzamento della propria attività, di lì a poco la "Società Ligniti" rilevava anche la miniera di Renellone, lasciata dal Grazi (27), e nel 1919 la miniera detta "Bosco del Lupo", nel comune di Trequanda. In tal modo l'Impresa estendeva i suoi diritti di concessione su quasi tutta la parte conosciuta del bacino lignitifero di Montefollonico. L'incremento della produzione si può collegare non solo al processo di rinnovamento e ampliamento degli impianti, ma anche alla favorevole congiuntura politica ed economica generale che vedeva in quegli anni l'impresa coloniale di Libia e lo sviluppo capitalistico industriale che preludeva alla prima guerra mondiale: fatti, questi, che accrescevano la richiesta e il consumo di combustibile.
Durante il periodo bellico, poi, l'attività mineraria registrò un forte aumento, raggiungendo la produzione giornaliera di duecento tonnellate, come la Società si auspicava da tempo, e una manodopera di circa seicento unità. Nel 1916 gli impianti minerari di Montefollonico erano stati dichiarati "stabilimenti ausiliari" e la produzione precettata dal Comitato dei Combustibili Nazionali che la distribuiva alle industrie legate all'Amministrazione Militare.
In quegli anni vennero esauriti alcuni cantieri, quale Cerreto e Barontole I, e fu iniziata la "coltivazione" di altri (Orbigliano, Bandita, Capraia e Bicchierino) per lo sfruttamento di nuovi filoni di lignite.
Proprio in questo periodo anche Torrita venne toccata dalle "meraviglie" delle scoperte tecniche e scientifiche. L'elettricità e il motore a scoppio operarono una radicale trasformazione nelle attività e nel paesaggio stesso del piccolo paese.
Fin dai primi anni del secolo gli industriali di Torrita, insieme all'autorità comunale, avevano caldeggiato l'installazione di un impianto elettrico; tra essi, il Grazi era uno dei più entusiastici sostenitori dell'iniziativa dalla quale sarebbero potuti venire benefici alla vita economica e sociale della comunità.
Intorno al 1913 la" Società Valdarno" realizzò il progetto portando l'energia elettrica a Torrita e nei paesi vicini.
La "Società Ligniti" di Montefollonico si avvantaggiò subito della nuova fonte di energia e nei primi anni venti procedette all'installazione di una teleferica, con telefono, che collegava direttamente le miniere con lo scalo ferroviario di Torrita permettendo il trasporto diretto della lignite dal luogo di escavazione al punto d'imbarco.
I "barrocci", affiancati negli anni più recenti dai camion, con i quali fino a quel momento veniva trasportata la lignite, furono sostituiti dal nuovo impianto con un evidente sveltimento di tutta l'operazione di trasporto del materiale.
La ripresa e l'espansione del settore minerario si accompagnavano ad un processo di diversificazione dell'attività cui la stessa Società dava inizio, rivolgendosi al ramo dei laterizi.
Nel 1912 era stata costruita e messa in opera una fornace presso Casanova, capace di produrre mezzo milione di mattoni all'anno.
L'anno prima il Dauphiné, già direttore generale della "Ligniti", e Vittorio Vitolo, impiegato della medesima e figura emergente del mondo imprenditoriale del tempo, avevano dato vita alla "Società Fornaci Valdichiana", con sede in Firenze e stabilimenti nel Comune di Sinalunga, in località Montemartino e Poggigialli, oltreché in quello di Cecina. Intorno al 1925 venne aperta una fornace anche a Torrita, nei pressi della stazione ferroviaria, fornace che assumerà una importanza notevole nel quadro dell'economia del paese.
 

La Crisi degli Anni venti e Trenta. La "Società Testi"
 

Verso la fine degli anni venti, nel quadro di una crisi generale dell'industria, le miniere accusarono i colpi di "una crisi gravissima" in tutta la provincia di Siena, "soprattutto quelle che hanno fatto investimenti per rinnovare gli impianti".
Gli industriali del settore sollecitarono l'intervento del Ministro dell'Economia per sostenere la ripresa dell'attività. Essi chiedevano, in particolare, di obbligare determinate industrie all'uso del combustibile nazionale, obbligo che, del resto, rientrava nelle direttive della politica fascista. In questo frangente la gestione delle miniere di Montefollonico passò alla "Società Testi - Industrie Riunite Cementi, Laterizi e Materiale da Costruzione".
Non sappiamo chi fossero i soci della nuova Società, ma, sia dalle testimonianze orali che da atti d'archivio, risulta la presenza di Vittorio Vitolo come di uno dei suoi maggiori animatori, tanto che, qualche anno più tardi, la "Testi" veniva indicata anche come "Gruppo-Vitolo".
Nella "Testi", già proprietaria di un cementificio nel luogo vicino a Firenze che portava questo nome, oltre alla "Società Anonima Ligniti" (che comprendeva le officine di Torrita situate nel piazzale della stazione ferroviaria), confluì anche la "Società Fornaci Valdichiana". Evidentemente la crisi in atto poteva essere meglio affrontata e superata rafforzando la Società e diversificando il lavoro.
Da questo momento la sorte delle miniere si legò strettamente a quella delle fornaci che diventarono, anzi, il settore trainante della Società stessa; ciò anche in relazione all'incremento edilizio di quegli anni che faceva apparire più convenienti e più promettenti gli investimenti nel campo dei laterizi.
Proprio in considerazione di questo la trattazione delle ulteriori vicende delle miniere di Montefollonico non potrà essere disgiunta da quella delle fornaci.
La crisi che aveva colpito il settore minerario si estese, nei primi anni trenta, in tutta la provincia di Siena all'industria dei laterizi, tanto che gli industriali avviarono trattative con i Sindacati Fascisti per una riduzione salariale, minacciando la cessazione del lavoro in caso di mancato accordo.

A determinare questa grave situazione concorrevano diversi motivi. Oltre alle forti spese costituite da salari, trasporti e gestione in generale, le ditte lamentavano l'esistenza nella provincia di troppe fornaci, alcune di dimensioni notevoli, che determinavano una concorrenza deleteria. In Valdichiana, in particolare, le fornaci erano specializzate in determinati tipi di materiale con forte produzione. Tutto questo nel momento in cui i consumi diminuivano nei mercati più lontani per la forte incidenza dei trasporti sul costo della merce.
A Torrita la crisi assunse preoccupanti proporzioni tanto da suscitare un interessamento costante e insistente da parte dell'autorità comunale.

Nell'inverno 1930-31 vennero chiusi gli stabilimenti di Torrita; il provvedimento che apparve, in un primo tempo, provvisorio, dettato da una momentanea sospensione delle ordinazioni, si prolungò fino ad assumere carattere permanente. Gli operai di Torrita rimasti senza lavoro vennero in parte assorbiti dagli altri stabilimenti della società, situati a Sinalunga e a Poggetti (località vicina ad Abbadia di Montepulciano).
Queste fornaci, a detta della "Testi", erano munite di impianti più funzionali che permettevano la produzione a costi minori se sfruttati a pieno ritmo.

Anche i cantieri minerari di Montefollonico lavoravano a ritmo ridotto, impiegando gli operai a turno, per la caduta vertiginosa della richiesta di lignite. Nel primo trimestre del 1931 erano state vendute solo quattromila tonnellate di lignite rispetto alle novemila tonnellate nello stesso periodo dell'anno precedente.
Le cause del fenomeno erano rintracciate dalla Società stessa nel basso costo di altri combustibili e nella concorrenza esercitata da altre miniere lignitifere, favorite da sussidi e accordi salariali. Concessioni analoghe a favore delle miniere di Montefollonico apparivano alla "Testi", nonché all'autorità comunale, attenta interprete delle esigenze delle forze industriali del paese, come una soluzione "ad hoc" per assicurare l'occupazione di tutti i minatori. In particolare la "riduzione (salariale) apparirebbe tanto più opportuna perché infonderebbe, da un lato, nella massa operaia, il senso della doverosa rinunzia, corrispettivo delle rinunzie subite dall'industria per le condizioni di mercato, e dall'altro lato solleverebbe l'industria stessa per un più largo respiro nei suoi mezzi economici".

Malgrado la produzione sia stata concentrata negli stabilimenti più funzionali, i problemi della Testi si aggravarono sempre più fino a che, nel 1934, la Società fallì e venne posta in liquidazione.

 

L'esercizio degli stabilimenti laterizi venne rilevato, al momento del fallimento della "Testi", dall'Avanzati di Siena che dette vita ad una nuova società denominata "Esercizio Stabilimenti Laterizi Torrita e Sinalunga", nella quale, secondo le testimonianze, entrò a far parte anche Vittorio Vitolo con il suo "patrimonio" di conoscenze e di fiducia di cui godeva ovunque negli ambienti industriali.

Con l'Amministrazione Avanzati il lavoro riprese regolarmente ed anzi si verificò un nuovo periodo di intensa attività che possiamo ricollegare sia alla guerra di Etiopia sia alle "sanzioni" che ne derivarono e che provocarono il ricorso su larga scala ai combustibili nazionali. Si può parlare a questo proposito di un vero e proprio "boom" dell'industria lignitifera che è sollecitata a trovare nuovi filoni per sopperire alle crescenti richieste provenienti anche dai centri industriali del Nord Italia.
Il ritmo lavorativo diventa ancora più intenso nel periodo bellico, quando le miniere vennero militarizzate e dichiarate "stabilimenti ausiliari". Gli operai delle miniere di Montefollonico furono esonerati dal servizio militare: negli anni 1940-41 erano circa quattrocento.

Proprio in questo periodo, come si ricava dalle testimonianze orali, il lavoro in miniera era preferito ad altri tipi di attività, compresa quella agricola, in quanto offriva il vantaggio di evitare il servizio militare nonché una paga superiore a quella offerta da altri settori. E questo nonostante il lavoro si svolgesse, come è noto, in condizioni molto disagiate, "con l'acqua di sotto e di sopra" e con il pericolo costante di malattie e incidenti.
Nel 1940 avvenne un ulteriore cambiamento nella conduzione delle miniere e delle fornaci che passarono alla "Società Anonima Industrie Laterizi Riunite", costituitasi in quell'anno a Milano, presieduta da Vittorio Vitolo.
Dopo la fine della guerra l'attività mineraria di Montefollonico si contrasse progressivamente, sia per esaurimento della lignite che per l'affermazione degli oli combustibili.
Un tentativo di rimettere in sesto le miniere si ebbe negli anni intorno al 1956, in coincidenza con la crisi di Suez che, come è noto, comportò l'esigenza di reperire fonti energetiche alternative a costo minore. La lignite si presentava appunto come una di queste.
Un gruppo di operai, riuniti nella "Cooperativa Minatori di Montefollonico", ebbe dal Vitolo la gestione delle miniere insieme alla promessa verbale che il materiale sarebbe stato acquistato per il funzionamento delle fornaci; non solo quelle di Torrita e di Sinalunga, ma anche molte altre in cui il Vitolo stesso era impegnato un po' ovunque nella penisola.
Ben presto però il tentativo fallì. Il Vitolo, infatti, dopo qualche tempo cessò gli acquisti ed anche altri compratori, tra cui alcune industrie bresciane, dopo alcune esperienze, non accettarono più la lignite di Montefollonico che, a causa delle massicce infiltrazioni di acqua e terra, si rivelava di qualità sempre più scadente. Inoltre il "banco" esaurendosi comportava l'esigenza di scavare più in profondità, con costi di gestione insostenibili per la Cooperativa.
Agli inizi degli anni sessanta gli impianti minerari di Montefollonico vennero definitivamente chiusi. La maggior parte degli operai - vi lavoravano allora circa cinquanta persone - fu assorbita dalle fornaci di Torrita e di Sinalunga, per cui al momento non si verificò nessun fenomeno di emigrazione o di disoccupazione.
 

Dentro la Miniera

 

Per una conoscenza più completa della storia di questo che è stato il primo nucleo industriale del Comune di Torrita è però necessario entrare "dentro" la miniera e vedere come si svolgeva concretamente il lavoro. Allo scopo, preziosissime e insostituibili si sono rivelate le testimonianze di alcuni ex minatori, abitanti a Montefollonico e a Torrita. I loro ricordi, ancora estremamente vivi e precisi, ci forniscono una serie di notizie di "prima mano" riguardo l'organizzazione del lavoro e le condizioni di vita dei minatori, quasi facendo rivivere le lunghe giornate, e nottate, passate in galleria.
Il "banco" di lignite da scavare veniva raggiunto mediante una rete di gallerie che scendevano in modo più o meno ripido - a "scenderla" - ma non perpendicolare: non erano mai a pozzo. Venivano puntellate con impalcature di legno dagli "armatori". Mano a mano che il "banco" si esauriva, i minatori si ritiravano abbattendo le impalcature.
Per garantire la circolazione dell'aria all'interno delle gallerie, che potevano raggiungere anche i 500-600 metri di lunghezza ed una profondità di circa 100-200 metri, venivano scavate le gallerie dette "imboccanti", collegate a quelle dove si svolgeva il lavoro, per creare un sistema "a giro d'aria". Quando la profondità era eccessiva, per assicurare sufficiente aerazione erano usati ventilatori artificiali.
Un altro problema la cui soluzione era essenziale per il funzionamento degli impiantì era costituito dall'acqua che penetrava nelle gallerie o per infiltrazione o perché, scavando, ci si imbatteva in qualche falda acquifera. Allora, per evitare l'allagamento della miniera, l'acqua, mediante una pompa elettrica, funzionante anche nei giorni festivi, veniva assorbita e raccolta nelle gallerie di "richiamo".
Per l'illuminazione erano usate delle lanterne ad acetilene, che segnalavano anche l'eventuale esaurirsi dell'aria, o a carburo.
La prima fase del lavoro minerario vero e proprio consisteva nella delimitazione della larghezza e dello spessore del "banco" di lignite.
Con 1' "incastrino", simile ad un martello con un incastro nella parte superiore dove era applicata una "sgubbia", veniva fatta una traccia, cioè due linee verticali ed una orizzontale, che indicava il "banco" da scavare.
La fase di escavazione, che veniva effettuata a colpi di piccone e maglio, procedeva fino alla "cascata", cioè fino al punto in cui la lignite finiva.
Il lavoro era organizzato in tre turni di otto ore ciascuno, con un intervallo di mezz'ora per il pasto.
I minatori lavoravano a coppie, dette "compagnie": uno dei due operai scavava la lignite (operazione di "avanzamento"), l'altro, il "portantino", caricava il materiale estratto in una cesta di vimini, della capacità di circa venti chilogrammi, e lo portava al "carrello" o vagoncino che scorreva su rotaie installate al centro della galleria. Con questi vagoncini la lignite arrivava in superficie, spinti a braccia o tirati da argani azionati manualmente oppure a motore. Le due mansioni non erano fisse: minatore e portantino si alternavano nell'arco delle otto ore.
All'interno della miniera non lavoravano donne le quali, invece, venivano impiegate nel piazzale esterno per il lavori di cucina, per la scelta della lignite e agli argani. Dopo la sua installazione, le troviamo anche assegnate al funzionamento della teleferica.
La maggior parte dei minatori proveniva da Montefollonico, ma molti arrivavano anche dai paesi vicini: da Torrita e Montepulciano, da Trequanda e Petroio, da Montisi e Sinalunga. Raggiungevano il posto di lavoro a piedi o in bicicletta. Con il tempo alcuni poterono comprarsi una moto, mentre negli anni cinquanta venne istituito un servizio di trasporto pubblico.
Com'è facile immaginare, le condizioni di lavoro dei minatori erano dure. Nelle gallerie la temperatura era elevata e il pavimento spesso invaso dall'acqua che, oltre tutto, filtrava anche dall'alto. Frequenti erano, in queste condizioni, le malattie dell'apparato respiratorio, artriti e reumatismi.
Naturalmente era sempre presente il rischio di incidenti: gli incidenti mortali furono tre o quattro, dagli anni venti in poi, causati da asfissia e annegamento; in uno di essi, un minatore fu travolto da un carrello di lignite.
I minatori, in genere, indossavano un corpetto imbottito per appoggiarvi la cesta di vimini carica di lignite, degli zoccoli quando la galleria era invasa dall'acqua, o scarpe. Se il lavoro si svolgeva dove il terreno era franato, veniva indossata una specie di sottana per evitare irritazioni della pelle.
Se il lavoro era duro e pericoloso, la paga, paragonata agli standard del periodo, era abbastanza buona e, comunque, più alta di quella degli operai agricoli e dei fornaciai. Negli anni trenta, per esempio, il minatore guadagnava circa 12 lire al giorno rispetto alle 9 lire di un operaio agricolo. Questo spiega, almeno in parte, perché gli operai preferivano lavorare in miniera piuttosto che in campagna o in fornace.
Vi era, inoltre, la possibilità di aumentare il salario ricorrendo allo "straordinario" o più spesso al "cottimo". Infatti il pagamento veniva effettuato "ad opera", cioè a stipendio fisso, fino al conseguimento di un tot di lignite estratta, e dopo a cottimo.

E' evidente che questo sistema permetteva di guadagnare di più ma aumentava notevolmente la fatica e i tempi di lavoro, facendo crescere anche il rischio di incidenti.
Dalle conversazioni con gli ex minatori emergono altre motivazioni interessanti a proposito della preferenza accordata al lavoro di miniera. Esso presentava infatti un orario definito e perciò disponibilità di tempo libero; permetteva inoltre di godere delle festività senza l'assillo e l'incertezza dei lavori agricoli. Lavori che, del resto, non erano abbandonati ma che potevano essere svolti e seguiti proprio durante il tempo lasciato libero dalla miniera e che normalmente rimanevano affidati al resto della famiglia: donne, ragazzi e anziani.
Se teniamo conto di tutti questi elementi comprendiamo meglio l'attaccamento dei minatori al loro lavoro di cui, d'altra parte, non ignoravano né la fatica né il rischio.
Durante i circa ottanta anni di vita della miniera di Montefollonico non risulta che ci sia stata un'attività sindacale vera e propria. Il fatto è da ritenersi abbastanza normale considerate in primo luogo la difficoltà e la lentezza con cui, in generale, si è fatta strada l'organizzazione operaia nel corso del '900 e, in secondo luogo, la perifericità del centro minerario rispetto ai grossi centri industriali nazionali dove le maestranze cominciavano ad organizzarsi. Anche nei periodi di intensa attività, quando gli operai raggiunsero le cinque o seicento unità, non si ha notizia di organismi o azioni di categoria di qualche importanza, eccezion fatta per il periodo fascista, quando i minatori - come tutti gli altri lavoratori - erano inquadrati nel relativo sindacato, godendo del trattamento previsto.
C'è tuttavia da dire che, rispetto ad altre fasce di operai, il rapporto di lavoro dei minatori era in genere meglio definito e regolamentato per cui, anche da questo punto di vista, si potevano considerare un po' "privilegiati" rispetto agli altri.
Nel secondo dopoguerra si formò una "Commissione Interna", senza, peraltro, svolgere un'attività sindacale particolare. Del resto le miniere erano in via di esaurimento e di lì a poco, come sappiamo, vennero definitivamente abbandonate.