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Non compaiono in questi anni
attività industriali di qualche importanza, né si fa cenno, nei
documenti dell'epoca, all'esistenza di impianti minerari.
La prima notizia sulle miniere del comune di Torrita di Siena si ha nel 1877. Si
tratta di due prospetti ad uso statistico nei quali viene registrata
l'esistenza di una cava di rame e manganese ad Oppiano, solo conosciuta,
di proprietà Petrucci-Bargagli; di una cava di lignite ad Orbigliano,
solo conosciuta, di proprietà Mucciarelli; di una cava di pietra serena
a Rotelle, in attività con tre operai, di proprietà Francini.
Del primo e terzo impianto non si hanno più notizie nei documenti
seguenti, per cui si può ritenere che l'uno sia rimasto inattivo e che
l'altro abbia avuto scarsa o nessuna importanza nel quadro delle
attività del territorio.
Per quello che riguarda la cava di Orbigliano, non la si trova più
indicata con tale denominazione, ma in tutti i documenti si parla sempre
delle cave di "Casanova" o "Casanovoli" e di "Renello" o "Renellone". Si
può pensare che, stando i due poderi di Casanova e Orbigliano l'uno
attiguo all'altro, i giacimenti lignitiferi lì esistenti venissero
indicati con l'una o con l'altra denominazione, indifferentemente,
finché prevale e si consolida negli atti ufficiali la dicitura di
"Casanova".
Si parla invece di Orbigliano nelle testimonianze di ex minatori e in
uno studio sulle miniere di Montefollonico del 1918, come di un cantiere
del vasto impianto di Casanova e Renello.
La vera e propria attività mineraria ha inizio negli anni ottanta. Nel
1884 viene messa in opera la miniera di Renello o Renellone e nel 1892
quella detta Casanova o Casanovoli, nel territorio fra Montefollonico e
il comune di Trequanda, presso la strada provinciale di Torrita.
Si trattava di due impianti con escavazione in galleria per una
produzione annua di circa 1500 tonnellate di lignite xiloide; in
ciascuno di essi erano occupati circa venti operai.
I terreni erano di proprietà di alcune famiglie di Montefollonico: i
Marselli e i Landucci della zona di Renello, i Mucciarelli di quella di
Casanova.
La gestione delle miniere invece è affidata, fin dall'inizio
dell'attività, alla ditta "Grazi F. & Fratello" di Sinalunga, ditta
"veramente notevole" se si considera che estendeva i propri interessi,
sempre nel comune di Torrita, anche ad una cava di calcari, ad una
fornace di calce e laterizi e ad un molino a vapore; era inoltre
proprietaria, in società con il signor Magini di Torrita, di una
Vetreria, aperta nel 1895, ed aveva la direzione della succursale dello
Stabilimento Tipografico Fumi e Catèri di Montepulciano, esistente a Torrita.
Per tutto lo scorcio del
secolo e nei primi anni del '900 le miniere rimasero sotto la direzione
del Grazi: una ventina di anni durante i quali l'attività e la vita
stessa delle miniere sembrano non registrare mutamenti o avvenimenti di
qualche importanza. La documentazione è, a questo proposito, abbastanza
avara di notizie.
Sappiamo che la lignite estratta veniva "in gran parte esportata o per
mezzo di veicoli o per mezzo di ferrovia e soltanto una piccola parte
viene conservata pel luogo per una fornace da mattoni e da calce e per
un mulino a vapore".
Non sappiamo invece come venne accolta dalla popolazione locale
l'apertura della nuova attività, nuova per la zona, e come vi si
adattasse. Si può ragionevolmente pensare, comunque, che abbia avuto
un'accoglienza favorevole in quanto costituiva pur sempre una buona
occasione di lavoro e di guadagno. Mentre si hanno ampie testimonianze
della preferenza accordata al lavoro minerario, in confronto a quello
agricolo, durante il '900.
Per tutto questo primo periodo troviamo occupati, in ciascun impianto,
circa venti operai ordinari e una decina di straordinari, di età fra i
sedici e i cinquant'anni.
I rapporti di lavoro non erano regolati da contratti né vi erano tariffe
da rispettare: i lavori venivano concordati verbalmente e
settimanalmente. Solo per la miniera di Renellone esiste notizia di
un'assicurazione degli operai contro gli infortuni a cominciare dal
1894.
Nel 1907 la conduzione della miniera di Casanova passò alla "Società
Anonima Ligniti di Montefollonico", costituitasi a Firenze in
quell'anno, che iniziò con veri criteri industriali lo sfruttamento
della zona lignitifera di Montefollonico.
L'impianto di Renello rimase ancora per qualche tempo amministrato dalla
Ditta Grazi.
La "Società
Anonima Ligniti di Montefollonico"
Della "Società Ligniti" non
si hanno notizie precise: sappiamo che il presidente era un certo
Moriani, direttore generale l'ingegnere Dauphiné, direttore tecnico il
geometra Ettore Gonnelli, personaggio, quest'ultimo, presente per molti
anni nelle vicende delle miniere.
Quanto alla scelta della zona lignitifera di Montefollonico, il
presidente della Società così spiegava al Sindaco di Torrita di Siena in
una lettera del 1908: "Noi abbiamo avute molte sollecitazioni e
facilitazioni da altri Comuni vicini per svolgere nel territorio dei
medesimi la nostra industria, tuttavia la maggiore vicinanza della
Stazione di Torrita di Siena ci farebbe propendere a impiantarci nel
territorio di Codesto Comune ...". Chiedeva, quindi, "concrete
facilitazioni" all'Amministrazione Comunale in funzione di un processo
di sfruttamento più razionale e più produttivo degli impianti esistenti.
Il nuovo impulso che la "Società Ligniti" intendeva imprimere
all'attività mineraria torritese, anche attraverso un ampliamento e
rinnovamento delle strutture interne e di appoggio della miniera di
Casanova, si scontrava con la inadeguatezza delle strutture esterne che
non rispondevano ai nuovi criteri di sfruttamento e commercializzazione
della lignite.
Un carteggio abbastanza vivace e ricco tra la stessa Società e il Comune
di Torrita di Siena nell'anno 1908 testimonia lo sforzo intrapreso e i
problemi incontrati dalla nuova gestione.
La difficoltà più grave era rappresentata dalla mancanza di vagoni per
il trasporto del materiale verso le zone di vendita e dalla angustia del
piazzale ferroviario. A questo proposito, la Società chiedeva al Comune
"che (...) ci ottenesse compromessi terreni per venti o trentamila metri
vicino alla Stazione in modo da potere avere il raccordo ferroviario, a
prezzi ragionevoli (...), appoggio con qualche voto presso la Direzione
Generale delle Ferrovie pel miglioramento del servizio, ingrandimento
della Stazione di Torrita di Siena e perché non manchino i carri ...".
Malgrado l'interessamento del Comune, la questione si protrasse insoluta
per molto tempo, creando un disagio tale da procurare alla Società
"la minaccia di cause per danni da parte della nostra clientela
alla quale non abbiamo potuto fornire il combustibile nelle quantità
contratte", che portò ad interrompere momentaneamente l'estrazione della
lignite con il conseguente licenziamento di centosessanta operai, tanti
erano occupati nel 1908 nella miniera di Casanova.
Si trattò indubbiamente di un provvedimento grave per l'occupazione
locale che provocò l'interessamento delle autorità, preoccupate di
possibili disordini popolari.
La situazione, peraltro, rimase sotto controllo e la sospensione
dell'attività fu di breve durata. I lavori ripresero pur non essendo
stato risolto il problema ferroviario. Altre esigenze, accanto a queste,
erano avvertite per uno sviluppo industriale del settore. La Società
chiedeva l'interessamento del Comune anche "per assicurarci sorgenti di
acqua e la possibilità di condurla; esenzione di tasse e soprattasse
comunali per almeno dieci anni per esercizio di nuove industrie,
fabbriche industriali, case operaie e simili; miglioramento del servizio
postale e telegrafico (...); appoggio per consumo di energia elettrica
per luce e forza nel Comune e nei Comuni limitrofi... ".
Il Consiglio Comunale, riunitosi il 9 giugno del 1908, accoglieva
favorevolmente tutte le richieste della "Società Ligniti", dichiarando
la propria disponibilità ad appoggiare il rilancio della attività
mineraria e l'apertura di nuove eventuali industrie. Peraltro, qualche
tempo dopo, il Sindaco ritornava sopra la questione confermando la
volontà del Comune di "concorrere moralmente e materialmente allo
sviluppo delle loro industrie", ma chiedendo, nel contempo, formale
assicurazione che gli impianti "avranno luogo nel territorio comunale",
precisando di sostenere tale sviluppo in misura proporzionata all'entità
degli impianti stessi.
La disponibilità espressa dal Comune incoraggiò indubbiamente la
"Società Ligniti" a potenziare gli impianti interni "per portare
occorrendo la produzione a duecento tonnellate al giorno". Venne infatti
sostituito tutto il materiale dei piani inclinati con altro di maggiore
forza, installata una motrice più potente, materiale rotabile, ecc..
I risultati di questa intensa opera di ammodernamento non si fecero
aspettare: nel 1912 la Società poteva affermare con soddisfazione di
aver aumentato la vendita del prodotto di "un buon terzo".
Proseguendo nell'opera di rafforzamento della propria attività, di lì a
poco la "Società Ligniti" rilevava anche la miniera di Renellone,
lasciata dal Grazi (27), e nel 1919 la miniera detta "Bosco del Lupo",
nel comune di Trequanda. In tal modo l'Impresa estendeva i suoi diritti
di concessione su quasi tutta la parte conosciuta del bacino lignitifero
di Montefollonico. L'incremento della produzione si può collegare non
solo al processo di rinnovamento e ampliamento degli impianti, ma anche
alla favorevole congiuntura politica ed economica generale che vedeva in
quegli anni l'impresa coloniale di Libia e lo sviluppo capitalistico
industriale che preludeva alla prima guerra mondiale: fatti, questi, che
accrescevano la richiesta e il consumo di combustibile.
Durante il periodo bellico, poi, l'attività mineraria registrò un forte
aumento, raggiungendo la produzione giornaliera di duecento tonnellate,
come la Società si auspicava da tempo, e una manodopera di circa
seicento unità. Nel 1916 gli impianti minerari di Montefollonico erano
stati dichiarati "stabilimenti ausiliari" e la produzione precettata dal
Comitato dei Combustibili Nazionali che la distribuiva alle industrie
legate all'Amministrazione Militare.
In quegli anni vennero esauriti alcuni cantieri, quale Cerreto e
Barontole I, e fu iniziata la "coltivazione" di altri (Orbigliano,
Bandita, Capraia e Bicchierino) per lo sfruttamento di nuovi filoni di
lignite.
Proprio in questo periodo anche Torrita venne toccata dalle "meraviglie"
delle scoperte tecniche e scientifiche. L'elettricità e il motore a
scoppio operarono una radicale trasformazione nelle attività e nel
paesaggio stesso del piccolo paese.
Fin dai primi anni del secolo gli industriali di Torrita, insieme
all'autorità comunale, avevano caldeggiato l'installazione di un
impianto elettrico; tra essi, il Grazi era uno dei più entusiastici
sostenitori dell'iniziativa dalla quale sarebbero potuti venire benefici
alla vita economica e sociale della comunità.
Intorno al 1913 la" Società Valdarno" realizzò il progetto portando
l'energia elettrica a Torrita e nei paesi vicini.
La "Società Ligniti" di Montefollonico si avvantaggiò subito della nuova
fonte di energia e nei primi anni venti procedette all'installazione di
una teleferica, con telefono, che collegava direttamente le miniere con
lo scalo ferroviario di Torrita permettendo il trasporto diretto della
lignite dal luogo di escavazione al punto d'imbarco.
I "barrocci", affiancati negli anni più recenti dai camion, con i quali
fino a quel momento veniva trasportata la lignite, furono sostituiti dal
nuovo impianto con un evidente sveltimento di tutta l'operazione di
trasporto del materiale.
La ripresa e l'espansione del settore minerario si accompagnavano ad un
processo di diversificazione dell'attività cui la stessa Società dava
inizio, rivolgendosi al ramo dei laterizi.
Nel 1912 era stata costruita e messa in opera una fornace presso
Casanova, capace di produrre mezzo milione di mattoni all'anno.
L'anno prima il Dauphiné, già direttore generale della "Ligniti", e
Vittorio Vitolo, impiegato della medesima e figura emergente del mondo
imprenditoriale del tempo, avevano dato vita alla "Società Fornaci
Valdichiana", con sede in Firenze e stabilimenti nel Comune di
Sinalunga, in località Montemartino e Poggigialli, oltreché in quello di
Cecina. Intorno al 1925 venne aperta una fornace anche a Torrita, nei
pressi della stazione ferroviaria, fornace che assumerà una importanza
notevole nel quadro dell'economia del paese.
La Crisi degli Anni venti e
Trenta. La "Società Testi"
Verso la fine degli anni
venti, nel quadro di una crisi generale dell'industria, le miniere
accusarono i colpi di "una crisi gravissima" in tutta la provincia di
Siena, "soprattutto quelle che hanno fatto investimenti per rinnovare
gli impianti".
Gli industriali del settore sollecitarono l'intervento del Ministro
dell'Economia per sostenere la ripresa dell'attività. Essi chiedevano,
in particolare, di obbligare determinate industrie all'uso del
combustibile nazionale, obbligo che, del resto, rientrava nelle
direttive della politica fascista. In questo frangente la gestione delle
miniere di Montefollonico passò alla "Società Testi - Industrie Riunite
Cementi, Laterizi e Materiale da Costruzione".
Non sappiamo chi fossero i soci della nuova Società, ma, sia dalle
testimonianze orali che da atti d'archivio, risulta la presenza di
Vittorio Vitolo come di uno dei suoi maggiori animatori, tanto che,
qualche anno più tardi, la "Testi" veniva indicata anche come "Gruppo-Vitolo".
Nella "Testi", già proprietaria di un cementificio nel luogo vicino a
Firenze che portava questo nome, oltre alla "Società Anonima Ligniti"
(che comprendeva le officine di Torrita situate nel piazzale della
stazione ferroviaria), confluì anche la "Società Fornaci Valdichiana".
Evidentemente la crisi in atto poteva essere meglio affrontata e
superata rafforzando la Società e diversificando il lavoro.
Da questo momento la sorte delle miniere si legò strettamente a quella
delle fornaci che diventarono, anzi, il settore trainante della Società
stessa; ciò anche in relazione all'incremento edilizio di quegli anni
che faceva apparire più convenienti e più promettenti gli investimenti
nel campo dei laterizi.
Proprio in considerazione di questo la trattazione delle ulteriori
vicende delle miniere di Montefollonico non potrà essere disgiunta da
quella delle fornaci.
La crisi che aveva colpito il settore minerario si estese, nei primi
anni trenta, in tutta la provincia di Siena all'industria dei laterizi,
tanto che gli industriali avviarono trattative con i Sindacati Fascisti
per una riduzione salariale, minacciando la cessazione del lavoro in
caso di mancato accordo.
A determinare questa grave
situazione concorrevano diversi motivi. Oltre alle forti spese
costituite da salari, trasporti e gestione in generale, le ditte
lamentavano l'esistenza nella provincia di troppe fornaci, alcune di
dimensioni notevoli, che determinavano una concorrenza deleteria. In
Valdichiana, in particolare, le fornaci erano specializzate in
determinati tipi di materiale con forte produzione. Tutto questo nel
momento in cui i consumi diminuivano nei mercati più lontani per la
forte incidenza dei trasporti sul costo della merce.
A Torrita la crisi assunse preoccupanti proporzioni tanto da suscitare
un interessamento costante e insistente da parte dell'autorità comunale.
Nell'inverno 1930-31 vennero
chiusi gli stabilimenti di Torrita; il provvedimento che apparve, in un
primo tempo, provvisorio, dettato da una momentanea sospensione delle
ordinazioni, si prolungò fino ad assumere carattere permanente. Gli
operai di Torrita rimasti senza lavoro vennero in parte assorbiti dagli
altri stabilimenti della società, situati a Sinalunga e a Poggetti
(località vicina ad Abbadia di Montepulciano).
Queste fornaci, a detta della "Testi", erano munite di impianti più
funzionali che permettevano la produzione a costi minori se sfruttati a
pieno ritmo.
Anche i cantieri minerari di
Montefollonico lavoravano a ritmo ridotto, impiegando gli operai a
turno, per la caduta vertiginosa della richiesta di lignite. Nel primo
trimestre del 1931 erano state vendute solo quattromila tonnellate di
lignite rispetto alle novemila tonnellate nello stesso periodo dell'anno
precedente.
Le cause del fenomeno erano rintracciate dalla Società stessa nel basso
costo di altri combustibili e nella concorrenza esercitata da altre
miniere lignitifere, favorite da sussidi e accordi salariali.
Concessioni analoghe a favore delle miniere di Montefollonico apparivano
alla "Testi", nonché all'autorità comunale, attenta interprete delle
esigenze delle forze industriali del paese, come una soluzione "ad hoc"
per assicurare l'occupazione di tutti i minatori. In particolare la
"riduzione (salariale) apparirebbe tanto più opportuna perché
infonderebbe, da un lato, nella massa operaia, il senso della doverosa
rinunzia, corrispettivo delle rinunzie subite dall'industria per le
condizioni di mercato, e dall'altro lato solleverebbe l'industria stessa
per un più largo respiro nei suoi mezzi economici".
Malgrado la produzione sia
stata concentrata negli stabilimenti più funzionali, i problemi della
Testi si aggravarono sempre più fino a che, nel 1934, la Società fallì e
venne posta in liquidazione.
L'esercizio degli
stabilimenti laterizi venne rilevato, al momento del fallimento della
"Testi", dall'Avanzati di Siena che dette vita ad una nuova società
denominata "Esercizio Stabilimenti Laterizi Torrita e Sinalunga", nella
quale, secondo le testimonianze, entrò a far parte anche Vittorio Vitolo
con il suo "patrimonio" di conoscenze e di fiducia di cui godeva ovunque
negli ambienti industriali.
Con l'Amministrazione
Avanzati il lavoro riprese regolarmente ed anzi si verificò un nuovo
periodo di intensa attività che possiamo ricollegare sia alla guerra di
Etiopia sia alle "sanzioni" che ne derivarono e che provocarono il
ricorso su larga scala ai combustibili nazionali. Si può parlare a
questo proposito di un vero e proprio "boom" dell'industria lignitifera
che è sollecitata a trovare nuovi filoni per sopperire alle crescenti
richieste provenienti anche dai centri industriali del Nord Italia.
Il ritmo lavorativo diventa ancora più intenso nel periodo bellico,
quando le miniere vennero militarizzate e dichiarate "stabilimenti
ausiliari". Gli operai delle miniere di Montefollonico furono esonerati
dal servizio militare: negli anni 1940-41 erano circa quattrocento.
Proprio in questo periodo,
come si ricava dalle testimonianze orali, il lavoro in miniera era
preferito ad altri tipi di attività, compresa quella agricola, in quanto
offriva il vantaggio di evitare il servizio militare nonché una paga
superiore a quella offerta da altri settori. E questo nonostante il
lavoro si svolgesse, come è noto, in condizioni molto disagiate, "con
l'acqua di sotto e di sopra" e con il pericolo costante di malattie e
incidenti.
Nel 1940 avvenne un ulteriore cambiamento nella conduzione delle miniere
e delle fornaci che passarono alla "Società Anonima Industrie Laterizi
Riunite", costituitasi in quell'anno a Milano, presieduta da Vittorio
Vitolo.
Dopo la fine della guerra l'attività mineraria di Montefollonico si
contrasse progressivamente, sia per esaurimento della lignite che per
l'affermazione degli oli combustibili.
Un tentativo di rimettere in sesto le miniere si ebbe negli anni intorno
al 1956, in coincidenza con la crisi di Suez che, come è noto, comportò
l'esigenza di reperire fonti energetiche alternative a costo minore. La
lignite si presentava appunto come una di queste.
Un gruppo di operai, riuniti nella "Cooperativa Minatori di
Montefollonico", ebbe dal Vitolo la gestione delle miniere insieme alla
promessa verbale che il materiale sarebbe stato acquistato per il
funzionamento delle fornaci; non solo quelle di Torrita e di Sinalunga,
ma anche molte altre in cui il Vitolo stesso era impegnato un po'
ovunque nella penisola.
Ben presto però il tentativo fallì. Il Vitolo, infatti, dopo qualche
tempo cessò gli acquisti ed anche altri compratori, tra cui alcune
industrie bresciane, dopo alcune esperienze, non accettarono più la
lignite di Montefollonico che, a causa delle massicce infiltrazioni di
acqua e terra, si rivelava di qualità sempre più scadente. Inoltre il
"banco" esaurendosi comportava l'esigenza di scavare più in profondità,
con costi di gestione insostenibili per la Cooperativa.
Agli inizi degli anni sessanta gli impianti minerari di Montefollonico
vennero definitivamente chiusi. La maggior parte degli operai - vi
lavoravano allora circa cinquanta persone - fu assorbita dalle fornaci
di Torrita e di Sinalunga, per cui al momento non si verificò nessun
fenomeno di emigrazione o di disoccupazione.
Dentro la Miniera
Per una conoscenza più completa della storia di questo che è stato il
primo nucleo industriale del Comune di Torrita è però necessario entrare
"dentro" la miniera e vedere come si svolgeva concretamente il lavoro.
Allo scopo, preziosissime e insostituibili si sono rivelate le
testimonianze di alcuni ex minatori, abitanti a Montefollonico e a
Torrita. I loro ricordi, ancora estremamente vivi e precisi, ci
forniscono una serie di notizie di "prima mano" riguardo
l'organizzazione del lavoro e le condizioni di vita dei minatori, quasi
facendo rivivere le lunghe giornate, e nottate, passate in galleria.
Il "banco" di lignite da scavare veniva raggiunto mediante una rete di
gallerie che scendevano in modo più o meno ripido - a "scenderla" - ma
non perpendicolare: non erano mai a pozzo. Venivano puntellate con
impalcature di legno dagli "armatori". Mano a mano che il "banco" si
esauriva, i minatori si ritiravano abbattendo le impalcature.
Per garantire la circolazione dell'aria all'interno delle gallerie, che
potevano raggiungere anche i 500-600 metri di lunghezza ed una
profondità di circa 100-200 metri, venivano scavate le gallerie dette
"imboccanti", collegate a quelle dove si svolgeva il lavoro, per creare
un sistema "a giro d'aria". Quando la profondità era eccessiva, per
assicurare sufficiente aerazione erano usati ventilatori artificiali.
Un altro problema la cui soluzione era essenziale per il funzionamento
degli impiantì era costituito dall'acqua che penetrava nelle gallerie o
per infiltrazione o perché, scavando, ci si imbatteva in qualche falda
acquifera. Allora, per evitare l'allagamento della miniera, l'acqua,
mediante una pompa elettrica, funzionante anche nei giorni festivi,
veniva assorbita e raccolta nelle gallerie di "richiamo".
Per l'illuminazione erano usate delle lanterne ad acetilene, che
segnalavano anche l'eventuale esaurirsi dell'aria, o a carburo.
La prima fase del lavoro minerario vero e proprio consisteva nella
delimitazione della larghezza e dello spessore del "banco" di lignite.
Con 1' "incastrino", simile ad un martello con un incastro nella parte
superiore dove era applicata una "sgubbia", veniva fatta una traccia,
cioè due linee verticali ed una orizzontale, che indicava il "banco" da
scavare.
La fase di escavazione, che veniva effettuata a colpi di piccone e
maglio, procedeva fino alla "cascata", cioè fino al punto in cui la
lignite finiva.
Il lavoro era organizzato in tre turni di otto ore ciascuno, con un
intervallo di mezz'ora per il pasto.
I minatori lavoravano a coppie, dette "compagnie": uno dei due operai
scavava la lignite (operazione di "avanzamento"), l'altro, il
"portantino", caricava il materiale estratto in una cesta di vimini,
della capacità di circa venti chilogrammi, e lo portava al "carrello" o
vagoncino che scorreva su rotaie installate al centro della galleria.
Con questi vagoncini la lignite arrivava in superficie, spinti a braccia
o tirati da argani azionati manualmente oppure a motore. Le due mansioni
non erano fisse: minatore e portantino si alternavano nell'arco delle
otto ore.
All'interno della miniera non lavoravano donne le quali, invece,
venivano impiegate nel piazzale esterno per il lavori di cucina, per la
scelta della lignite e agli argani. Dopo la sua installazione, le
troviamo anche assegnate al funzionamento della teleferica.
La maggior parte dei minatori proveniva da Montefollonico, ma molti
arrivavano anche dai paesi vicini: da Torrita e Montepulciano, da
Trequanda e Petroio, da Montisi e Sinalunga. Raggiungevano il posto di
lavoro a piedi o in bicicletta. Con il tempo alcuni poterono comprarsi
una moto, mentre negli anni cinquanta venne istituito un servizio di
trasporto pubblico.
Com'è facile immaginare, le condizioni di lavoro dei minatori erano
dure. Nelle gallerie la temperatura era elevata e il pavimento spesso
invaso dall'acqua che, oltre tutto, filtrava anche dall'alto. Frequenti
erano, in queste condizioni, le malattie dell'apparato respiratorio,
artriti e reumatismi.
Naturalmente era sempre presente il rischio di incidenti: gli incidenti
mortali furono tre o quattro, dagli anni venti in poi, causati da
asfissia e annegamento; in uno di essi, un minatore fu travolto da un
carrello di lignite.
I minatori, in genere, indossavano un corpetto imbottito per appoggiarvi
la cesta di vimini carica di lignite, degli zoccoli quando la galleria
era invasa dall'acqua, o scarpe. Se il lavoro si svolgeva dove il
terreno era franato, veniva indossata una specie di sottana per evitare
irritazioni della pelle.
Se il lavoro era duro e pericoloso, la paga, paragonata agli standard
del periodo, era abbastanza buona e, comunque, più alta di quella degli
operai agricoli e dei fornaciai. Negli anni trenta, per esempio, il
minatore guadagnava circa 12 lire al giorno rispetto alle 9 lire di un
operaio agricolo. Questo spiega, almeno in parte, perché gli operai
preferivano lavorare in miniera piuttosto che in campagna o in fornace.
Vi era, inoltre, la possibilità di aumentare il salario ricorrendo allo
"straordinario" o più spesso al "cottimo". Infatti il pagamento veniva
effettuato "ad opera", cioè a stipendio fisso, fino al conseguimento di
un tot di lignite estratta, e dopo a cottimo.
E' evidente che questo
sistema permetteva di guadagnare di più ma aumentava notevolmente la
fatica e i tempi di lavoro, facendo crescere anche il rischio di
incidenti.
Dalle conversazioni con gli ex minatori emergono altre motivazioni
interessanti a proposito della preferenza accordata al lavoro di
miniera. Esso presentava infatti un orario definito e perciò
disponibilità di tempo libero; permetteva inoltre di godere delle
festività senza l'assillo e l'incertezza dei lavori agricoli. Lavori
che, del resto, non erano abbandonati ma che potevano essere svolti e
seguiti proprio durante il tempo lasciato libero dalla miniera e che
normalmente rimanevano affidati al resto della famiglia: donne, ragazzi
e anziani.
Se teniamo conto di tutti questi elementi comprendiamo meglio
l'attaccamento dei minatori al loro lavoro di cui, d'altra parte, non
ignoravano né la fatica né il rischio.
Durante i circa ottanta anni di vita della miniera di Montefollonico non
risulta che ci sia stata un'attività sindacale vera e propria. Il fatto
è da ritenersi abbastanza normale considerate in primo luogo la
difficoltà e la lentezza con cui, in generale, si è fatta strada
l'organizzazione operaia nel corso del '900 e, in secondo luogo, la
perifericità del centro minerario rispetto ai grossi centri industriali
nazionali dove le maestranze cominciavano ad organizzarsi. Anche nei
periodi di intensa attività, quando gli operai raggiunsero le cinque o
seicento unità, non si ha notizia di organismi o azioni di categoria di
qualche importanza, eccezion fatta per il periodo fascista, quando i
minatori - come tutti gli altri lavoratori - erano inquadrati nel
relativo sindacato, godendo del trattamento previsto.
C'è tuttavia da dire che, rispetto ad altre fasce di operai, il rapporto
di lavoro dei minatori era in genere meglio definito e regolamentato per
cui, anche da questo punto di vista, si potevano considerare un po'
"privilegiati" rispetto agli altri.
Nel secondo dopoguerra si formò una "Commissione Interna", senza,
peraltro, svolgere un'attività sindacale particolare. Del resto le
miniere erano in via di esaurimento e di lì a poco, come sappiamo,
vennero definitivamente abbandonate.
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