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È un antichissimo, collerico, vulcano, ma prima di eruttare apocalittiche fiammate, mitragliate di lapilli e incandescenti colate di lava, il monte Amiata era probabilmente un'isola in mezzo al mare, un massiccio roccioso vomitato dal fondo degli abissi al di sopra delle onde tirreniche. Non doveva apparire molto diverso - benché più grosso e più alto - dal cono granitico di Montecristo, che è tuttora in mezzo al mare: il quale, al tempo di cui si parla (ultimo periodo dell'era terziaria, fine del Pliocene, diciamo un milione di anni fa) non si limitava a lambire gli scogli dell'Argentario, la tagliata dell'Ansedonia, o i monti dell'Uccellina, ma penetrava ben dentro la Maremma, circondava l'Amiata, e si spingeva nell'entroterra toscano, assediando d'azzurro Cetona, e anche la Montagnola senese, e lambendo i monti del Chianti. In mancanza di testimoni oculari, e di oculati cronisti, si va per ipotesi - e per fantasia - e si può supporre che il mare prendesse a ritirarsi verso l'inizio dell'era quaternaria (lasciando ovunque miliardi di conchiglie) e che in quello stesso periodo l'Amiata cominciasse a scuotersi, a brontolare, a ruggire spaventevolmente, mentre fiotti di lava salivano dal cuore della terra, si sfogavano aprendo un cono eruttivo sulla vetta della montagna, e quindi ricadevano lungo i fianchi e tra le pieghe del massiccio, serpeggiando come fiumi di fuoco, coprendo con un mantello di rocce ignee, di strati vulcanici, le più antiche formazioni eoceniche e plioceniche. Sempre in mancanza di testimoni e di cronache, si può immaginare che quando infine si spense e si placò, il Vesuvio della Toscana divenne freschissimo - da caldissimo che era - e a rinfrescarlo collaborarono grandi piogge, lunghe stagioni di nevi e di ghiacci, e poi mille polle sorgive, cento laghetti, decine di torrenti, fossi, ruscelli, rivoli, che presero a scorrere lungo le sue pieghe, mentre il colosso si copriva di un nuovo mantello. Questa volta un mantello verde, anzi verdissimo. Fatto di macchie intricate, di bosco ceduo, di alte foreste, di grandi praterie, di ombrosi rifugi, dove scorrazzava una fauna selvatica che oggi si può vedere soltanto negli zoo, o anche (ma ormai fossile) nei musei. Nelle immense foreste montane della Toscana, nelle pianure alluvionali, e nelle terre acquitrinose, pascolavano i mastodonti, gli ippopotami, e i bovidi dalle grandi corna, insidiati dalla famelica tigre con i denti a sciabola, mentre la fauna si arricchiva dell'uomo.

 

Il mercurio, il "latte di luna" e i primi insediamenti umani

 

Poi sull'Amiata scomparvero tante cose. Scomparve l'ultimo pennacchio di fumo del vulcano in pensione, ma restò il mercurio, restarono i tesori minerali contenuti nelle rocce vulcaniche. Scomparvero i laghetti popolati di microscopiche alghe, ma restò la farina fossile chiamata "latte di luna". Scomparvero i primi abitatori ma restarono le loro armi di pietra, le memorie della pastorizia, della caccia, delle prime attività agricole, i cimeli dell'Età del Bronzo e del Ferro. E poi le memorie delle generazioni successive, degli Etruschi, dei Romani, delle invasioni barbariche, le abbazie e i romitori dei santi uomini, le rocche e i castellacci dei feudatari, le borgate e i paesi che sorsero all'ombra del colosso: Seggiano, Castel del Piano, Arcidosso, Bagnore, Santa Fiora, Bagnolo, Abbadia San Salvatore, Piancastagnaio...

 

Un colosso ammantato di boschi e di leggende

 

Restarono le leggende. Ecco Ratchis, il re dei Longobardi, che va a caccia nelle selve amiatine, che insegue una cerva bianca, e poi ha la visione del Signore che, assiso tra i rami di un enorme castagno, gli parla e gli ordina di costruire una chiesa, e lui obbedisce, fonda l'Abbazia di San Sal­vatore, e poi vi si ritira a condurre vita monacale... Ecco una bella contessa degli Aldobrandeschi che s'innamora di un cavaliere di Chiusi, valoroso partecipante ai tornei cavallereschi, e che per vederlo più spesso, pensa di organizzare lei stessa feste e tornei, e fa allargare dai boscaioli una radura in mezzo ai faggi, che poi si chiamerà "il prato della contessa"... Ecco il valoroso e intrepido conte Guido Sforza che affronta da solo il terribile drago dell'Armata, lo uccide, e ne regala la testa ai frati del Convento della Selva dove ancora il cimelio si conserva... Ecco un altro drago sconfitto dalla Santa Vergine (la "Madonna del drago") mentre tenta di impedire a un sacerdote di portare i sacramenti a un moribondo facendolo cadere tra Castel del Piano e Seggiano... Ecco un mulattiere che bestemmia, e una mula che s'inginocchia sulla soglia dell'antica Pieve di Santa Maria ad Lamulas...
Restarono i grandi boschi, restò il verdissimo mantello che copre ancora oggi questo gigantesco monumento elevato alla natura. Dopo i sei-settecento metri di quota dove finiscono le coltivazioni agricole - come i secolari olivi di Seggiano - cominciano le annose selve dei castagni, e poi le macchie arbustive, il bosco ceduo, le felci, gli scopeti. Celebri i castagneti di Castel del Piano, di Abbadia, di Piancastagnaio, che una volta erano una gran risorsa per la gente amiatina. Anche il Repetti citava nell'Ottocento le "imponenti selve di castagni che rivestono la zona centrale della montagna, e che formano il parco più magnifico da potersi mai immaginare l'eguale". E poi i ceni, le querci, gli aceri, i carpini, e poi gli abeti bianchi (chiamati "pigelli") che formano fra l'altro l'antica abetina del Pigelleto, e poi (oltre i novecento-mille metri) le folte faggete che raggiungono la vetta, e poi ancora i prati alpestri. Come diceva nei suoi "Commentari" Pio II, il fondatore di Pienza, "il Monte Amiata trovasi vestito sino al suo vertice di boschi, che la parte più elevata, spesse volte immersa tra le nubi, è coperta di faggi... e in una riposta valle del monte sorge una selva di giganteschi abeti...". Un monte fiero, imponente, solenne, e anche mistico con la sua grande Croce che di lassù abbraccia il mondo. Una montagna immensa, una foresta immensa, un immenso panorama.

 

Il "belvedere" della Toscana

E la terrazza della Maremma, è il belvedere della Toscana. Dai 1738 metri della vetta si vedono - in cerchio - le cime appenniniche della Toscana, dell'Emilia, della Romagna, dell'Umbria, delle Marche, si vedono i monti del Lazio, le isole dell'Arcipelago, e poi ancora la Sardegna, la Corsica. D'estate, il verde intenso delle selve, le fresche distese dei prati, i silenzi degli ombrosi sentieri, il ristoro delle sorgenti, il profumo dei funghi, dei mirtilli, delle fragole, dei lamponi, la luminosità del cielo, la purezza del paesaggio... D'inverno, l'immacolato mantello della neve, la magia di una foresta fatta di alberi di Natale, l'ebbrezza delle piste, la vertigine della velocità, il comfort dei rifugi, dei borghi ospitali... E sempre - d'estate e d'inverno - folle di sudditi fedeli vanno a rendere omaggio all'antico vulcano, al gigante della Maremma che sa di eterno e d'infinito, alla leggendaria montagna che profuma di tempi remoti.
 

 
     
 

 

I "Frutteti dell'Amiata

 

 

La gente di montagna, dice un vecchio proverbio, campava di "pan di legno e vin di nuvoli": castagne e acqua. Ma se alla pioggia ci pensa il Padreterno, ai castagni bisogna badarci da sé, come sanno le popolazioni dell'Amiata, che da secoli li accudiscono come figli. Da queste parti, infatti, la tutela del castagno da frutto non è una novità: prescritta sin dal Duecento dagli statuti delle comunità amiatine, è oggi la condizione per mantenere e sviluppare una risorsa di primaria importanza. I possenti fianchi dell'antico vulcano, cinti da una fitta fascia di castagneti, sono la culla della "castagna del monte Amiata", la cui peculiarità è garantita e tutelata da Igp (indicazione geografica protetta). La segnalazione è riservata ai pregiati frutti appartenenti a tre fra le tante specie tipiche della zona: Marrone, Bastarda rossa e Cecio. La raccolta, che avviene fra il 15 settembre e il 15 novembre, è circoscritta a fustaie iscritte a un apposito albo, ubicate fra 350 e 1000 metri d'altitudine, coltivate esclusivamente in terreni derivati in massima parte dal frantumarsi di rocce vulcaniche e arenacee ricche di silicio, cui si deve il gusto inimitabile della castagna amiatina, dolce e delicata. Chi volesse visitare i "frutteti" in cui matura segua la segnaletica della "Strada della Castagna", che propone una passeggiata attraverso solenni castagneti, lindi come salotti, ove si celano piante monumentali, la cui circonferenza può superare i 10 metri, e antichi "seccatoi". Questi, detti anche "metati", sono rustici essiccatoi in peperino, pietra locale, con un graticcio di castagno a un paio di metri dal suolo, coperto di rami di scopa sui quali erano sparse le castagne, seccate e affumicate da un torpido fuoco di legna verde, alimentato senza interruzione per un mesetto, indi "trebbiate", per liberarle dalla buccia, e macinate. Ancor oggi, sull'Amiata, si gusta una finissima farina di castagne dal bel colore marrone scuro, dolce e profumata di fumo, ottenuta da frutti seccati all'antica e moliti da macine di pietra. Con la farina di castagne si fanno la "polenta dolce", detta altrove "pattona", castagnacci, cialde, frittelle; con le castagne intere, oltre a trasformarle in ballotte - o "suggiole" - e bruciate, si può fare la "pichiona". Le castagne, private della buccia, saranno passate sul fuoco - meglio se di legna - in una padella forata da caldarroste, ma senza abbrustolirle, allo scopo d'eliminare facilmente la pellicola che le riveste. Lessate per un paio d'ore in abbondante acqua bollente con poco sale e un bel mazzetto legato di finocchio selvatico, saranno scolate (senza gettare l'acqua) e ridotte in poltiglia al passaverdura. Rimesso il passato in casseruola e unita l'acqua conservata, eliminato il mazzetto, lo faremo ritirare pian piano, sinché avrà una consistenza cremosa.
Come tutti i giganti, l'Amiata possiede favolosi tesori: ma, a differenza dei giganti delle fiabe, non ne è geloso, bensì prodigo. I suoi boschi, oltre che di castagne, pullulano di funghi eccellenti, fra i quali ovoli, porcini delle varietà più pregiate, famigliole, ordinali, pinaroli, prugnoli e altre specie che, avvicendandosi nel corso delle stagioni, ne rivestono il suolo d'un succulento tappeto. Se il prosperare dei funghi è demandato alla correttezza dei cercatori, alla perizia dei coltivatori si deve la
raccolta, fra luglio e agosto, del fagiolo della montagna, detto anche fagiolo bastardone o della nodola, tipico dell'Armata (in particolare del versante senese). Un fagiolo sodo, dal seme grande di colore giallo tendente al verdognolo, di sapore deciso, che si gusta lesso con sale, pepe e olio. E l'olio non può essere altro che il prezioso extravergine della zona, dolce e fruttato, dal bassissimo tenore d'acidità: in particolare, l'olio extravergine d'oliva "Toscano" IGP può fregiarsi della menzione geografica aggiuntiva "Seggiano" se ottenuto da olive provenienti da oliveti composti dalla varietà Olivastra Seggianese.  E dopo sapori così netti, perché non addolcirsi la bocca con l'ottimo miele dell'Amiata o con le fragole, i lamponi e le more che ne colorano i boschi e le macchie?
Le vulcaniche viscere dell'Amiata non potevano non generare grandi vini, come i rossi e i bianchi della Doc Montecucco, istituita nel 1998.