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Così il Repetti nel: Dizionario Geografico, Fisico e Storico della Toscana

 

RADICOFANI fra la Val d'Orcia e la Val di Paglia. - Castello con Terra sottostante che siede sopra un monte omonimo, capoluogo di Comunità e di Giurisdizione, con pieve arcipretura (S. Pietro) nella Diocesi di Chiusi, Compartimento di Siena.
Esiste la rocca sulla sommità del monte di Radicofani ad una elevatezza di 1558 braccia calcolata dalla cima del torrino della semidistrutta fortezza, la quale è posta a cavaliere della Terra, e questa al di sopra della strada regia romana, dove è una stazione postale con dogana di frontiera. - Trovasi nel grado 29° 26' di longitudine e 42° 54' di latitudine 46 miglia toscane a scirocco di Siena, 16 a libeccio di Chiusi, 7 miglia toscane a maestrale della Torricella di Pontecentino sul confine del Granducato e quasi altrettante a levante grecale dell'Abbadia S. Salvadore sul Monte Amiata.
Fu questo luogo uno degli antichi feudi dei monaci della badia del Monte Amiata.  - Infatti nelle pergamene appartenute a cotesto cenobio avvene molte che rammentano il Castello di Radicofani fino dal secolo XI. [...]

 

[...] Anche un istrumento del 13 ottobre 1248 fu rogato nel cassero di Radicofani mezzo secolo dopo che, al dire del Boccaccio, vi signoreggiò il nerboruto Ghino di Tacco da Torrita, quando fece rinchiudere e medicare lo stomaco in modo singolare al ricco abbate di Cluny nel passare che faceva egli ed il suo seguito di sotto a Radicofani per recarsi a far uso de'vicini bagni minerali di San Casciano.

 

[...] Comunità di Radicofani. - Il territorio di questa Comunità occupa una superficie di 33215 quadrati, 1433 dei quali sono presi da corsi d'acqua e da strade. - Nel 1833 vi abitavano 2412 persone, a proporzione di 61 individui per ogni miglio quadrato di suolo imponibile.
Confina con cinque comunità del Granducato, poiché dirimpetto a grecale fronteggia col territorio comunitativo di Pienza, mediante il fiume Orcia, a partire dal suo confluente Formone fino alla confluenza del torrente Spineta .
Costà di fronte a settentrione sottentra a confine la comunità di Sarteano, con la quale prosegue a percorrere contr'acqua l'alveo dell'Orcia rimontando verso la sua sorgente che trova sul Monte Presis , ossia sulla schiena del monte di Cetona, e di là sulla strada provinciale di Radicofani a Sarteano. Ivi succede in faccia a grecale il territorio comunitativo di S. Casciano de'Bagni, e con esso l'altro fronteggia, correndo verso scirocco; dove passa per il poggio Bianco , di làdal quale i due territorj entrano nel torrente Rigo , col quale scendono fino al fiume Paglia. Costì alla Novella sottentra il territorio comunitativo dell'Abbadia S. Salvadore, col quale il nostro dirigendosi a ponente- libeccio varca i poggi che scendono dal Montamiata fra la valle della paglia e quella dell'Orcia per entrare in quest'ultima mediante il torrente Formone , finché a mezza via di detto torrente incontra il territorio della Comunità di Castiglion d'Orcia. Con quest'ultimo il nostro si accompagna lungo il torrente medesimo fino al suo sbocco in Orcia dove dirimpetto al fiume ritorna la Comunità di Pienza.
Delle strade rotabili che passano per Radicofani, o che attraversano la sua montagna se ne contano due; cioè, la regia postale Romana e la strada provinciale che da Radicofani conduce a Sarteano. Rispetto all'antica via Francesca tracciata alla base meridionale del monte di Radicofani nel varco più depresso, disfatta, come dissi, dai Sanesi nel 1442, non vi sono rimaste quasi più tracce. [...]

 

 
     
 

 

La rocca di Radicofani è menzionata la prima volta nel 973 in un documento edito dal marchese Lamberto di Ildebrando. Essa controlla dall’alto dei suoi quasi mille metri la via Cassia, che le passa più in basso e poco distante fra il Lazio e la Toscana. Nel quindicesimo secolo, quando era già una fortezza, i Senesi, che la ebbero in proprietà, costruirono addirittura un nuovo tracciato stradale per sfiorare il maniero, una deviazione della Cassia, con danneggiamento di questa, per far sì che i pellegrini in cammino per la via Francigena verso Roma fossero controllati e possibilmente gabellati. La presenza di tre spedali nel borgo omonimo vicino raccontano della sua originaria funzione di sosta e ricovero per i tanti viaggiatori verso la benedizione e l’indulgenza papale. Nel suo viaggio lungo la via Romea, un pellegrino di Canterbury scrive di Rodecoc, piazzaforte maestosa identificabile in Radicofani nella Val di Paglia.

Grazie a una non lontana scoperta di un tempio consacrato a Vortumno, dio etrusco della maturazione dei frutti, ora si sa che il luogo in cui sorge Radicofani era attivo già avanti Cristo e poi in epoca romana ovviamente. Ma la torre, poi trasformata in un mastio di 37 metri in epoca medicea, fu edificata in epoca carolingia; e fu Desiderio, primo re dei Longobardi in Italia, a rendere importanza al luogo, restituendolo dopo le devastazioni barbariche alla sua funzione di cerniera e confine fra la Tuscia longobarda e la Donazione di San Pietro, composizione amministrativa, questa, istituita da Innocenzo III, primo tutore di Federico II.

Il feudo di Radicofani prende le mosse il 29 settembre del 1028, quando il conte Ildebrando degli Aldobrandeschi cedette quei luoghi a un piccolo nobile locale, tale Foscolo di Pietro. Due anni dopo il figlio di questi la donò all’Abbazia di San Salvatore che la tenne per diverso tempo recuperando la tradizione carolingia di donare territori alla Chiesa romana.
Una pergamena del gennaio 1075 scritta a Chiusi ma conservata nell’abbazia amiatina si riferisce ad una donazione a suo favore di diversi beni patrimoniali fra cui il piviere di S. Donato a Radicofani.
Per la storia di Radicofani è fondamentale però la bolla del 23 febbraio 1143, con la quale papa Celestino II conferma all’abate del monastero di S. Salvatore sul Monte Amiata tutti i beni in possesso della badia, fra i quali le chiese ed il castello di Radicofani, ponendo fra l’altro il convento sotto la protezione della sede apostolica, a compenso della quale la badia doveva pagare 220 denari d’oro l’anno.

 

Esiste anche un protocollo d’intesa del 29 maggio 1153, firmato a Roma da papa Eugenio III con alcuni consoli romani e dall’abate Ranieri, primo dei monaci della abbazia amiatina, nel quale si sancisce col consenso dei vassalli di Radicofani, la cessione al Papa della metà del borgo di Radicofani e di quello sottostante il castello, con tutti i diritti, censi e livelli eccetto la giurisdizione canonica delle chiese situate nel castello stesso e nel borgo di Radicofani. A contropartita la Camera apostolica si obbligava a retribuire l’abbazia amiatina di sei marche d’argento l’anno. Se non fossero state pagate le marche per tre anni consecutivi, il contratto sarebbe stato nullo così da far ritornare in mano ai monaci di san Salvatore Radicofani e tutto il feudo.
Anche papa Clemente III, con una bolla datata 19 febbraio 1187, riconobbe e confermò l’atto del 1153 a Rolando abate dell’Abbazia di San Salvatore, cioè tutti i privilegi allora concessi, la proprietà di metà del castello di Radicofani e il debito delle sei marche annuali.
Il 13 maggio 1196 Celestino III vieta all’abate priore di Abbadia San Salvatore la costruzione di una chiesa nel feudo di Radicofani a motivo che ciò costituiva pregiudizio per la Badia medesima, confermando così anche lui la giurisdizione dei monaci sul castello e quant’altro.

 

Nel frattempo la proprietà della metà di Radicofani aveva consentito alla chiesa di Roma di istituire un castellano alla rocca di Radicofani con un manipolo di soldati: Adriano IV, approfittando del possesso della metà del feudo e temendo l’avanzata di Federico il Barbarossa, aveva infatti costruito nel 1159 una cinta muraria a perimetro di Radicofani, munendola di quattro torri a difesa della rocca. Le fortificazioni furono potenziate da Innocenzo III nel 1198, fino a che nel 1201 l’imperatore Ottone IV riconobbe lo stato dei fatti, cioè il castello di Radicofani come punto di confine della Donazione di San Pietro.

Nel 1262 la famiglia guelfa senese dei Salimbeni trovò scampo a Radicofani dove riparò insieme ad altri fuoriusciti guelfi. Per quasi due secoli, tranne l’intermezzo del possesso del ghibellino Ghino di Tacco fra il 1295 e il 1300, la fortezza, divenuta così una parte importante nelle lotte politiche e armate della storia della Toscana, fu gestita sostanzialmente dalla Repubblica senese e dallo Stato Pontificio fino a tutto il Quattrocento.

Nel 1352 la Repubblica di Siena riuscì a sottomettere Radicofani, mentre nel 1379 ebbe luogo nei pressi di Radicofani la guerra omonima contro i Farnese, dove ebbe gloriosamente la meglio la popolazione armata del castello, alleata e sostenuta dai Senesi.
Giunto al soglio pontificio il senese Pio II Piccolomini, questi con una bolla del 1469 attribuì il vicariato perpetuo di Radicofani al Comune di Siena con tanto di tributo annuale da versare, ma soprattutto tacendo in quella bolla i vecchi padroni del feudo, cioè i monaci del Monte Amiata.
In epoca medicea il castello di Radicofani era stato ulteriormente rinforzato dai tipici bastioni voluti da Cosimo I tramite l’architetto Baldassarre Lanci.

 

Da allora in poi Radicofani seguì le sorti politiche della Repubblica di Siena fino alla caduta di Montalcino. Nel 1555 Chiappino Vitelli, generale di Cosimo I, provò invano a espugnare Radicofani con una potente artiglieria, ma solo con la caduta di Montalcino (1559) ultima piazzaforte dei repubblicani senesi, ci fu la resa anche di Radicofani.
Il 17 agosto del 1559 guarnigioni e popolazione dovettero far giuramento al Granducato della Toscana, la quale per il possesso di quella terra dovette cionondimeno pagare l’antico censo alla Camera apostolica. Tali condizioni furono rinnovate col trattato del 1580 fra il Granduca e il Pontefice.
Il 1559 per Radicofani e Siena è una data da ricordare, perché grazie al trattato di Cateau-Cambrésis lo stato senese è assorbito al Granducato di Toscana che grazie all’abile politica di Cosimo I rimase esclusa dal predominio spagnolo su tutta l’Italia.

 

Dopo lo scoppio della polveriera del 1735 il castello crollò in gran parte fino a essere abbandonato del tutto. Della Rocca più antica, che aveva una struttura triangolare, rimase solo la torre principale, a foggia di mastio, largamente integrata coi restauri fascisti del 1929.
Intorno alla rocca si sviluppa una cinta muraria che le dà l’aspetto di una fortezza bastionata, sia pur mossa sui suoi quattro lati irregolari, poi integrato da un altro lato a nord.

La Fortezza di Radicofani ha una struttura difensiva esterna di forma pentagonale, mentre quella interna ha forma triangolare con le rovine delle tre torri angolari e un corpo centrale (cassero) restaurato e visitabile. Tra l'ingresso ed il cassero si trova un ampio piazzale chiamato la Scoperta.
Infine delle pareti murarie difensive del borgo resta solo qualche pezzo, con qualche porta e una torre circolare.
 

 
 

 

Ghino di Tacco

La data di nascita esatta di Ghino è incerta, ma si colloca di certo nella seconda metà del XIII secolo, viste le testimonianze che si hanno circa le scorribande della Banda dei Quattro composta da suo padre Tacco di Ugolino, suo zio Ghino di Ugolino ed i due piccoli fratelli, lo stesso Ghino che era il primogenito e Turino, il minore. Fin da piccolo, infatti, Ghino accompagnava il padre e lo zio nelle scorrerie nei dintorni del suo luogo di nascita, il piccolo castello-fattoria de La Fratta, nella Val di Chiana senese che allora faceva parte del territorio di Torrita.

Il motivo dell'attività di briganti va ricercato probabilmente nella rendita, ovvero il prelievo della ricchezza terriera esercitato dalla Chiesa senese a favore dello Stato Pontificio, tassa ritenuta eccessiva dai nobiluomini ghibellini della Fratta dei Cacciaconti.

In quell'epoca i castelli della zona, Asinalonga (l'odierna Sinalunga), Scrofiano, Rigomagno, Farnetella, Bettolle, Serre di Rapolano, Torrita di Siena, erano tutti di proprietà di uno dei membri della potente famiglia senese Cacciaconti Tolomei. Questo gli garantiva una sorta di impunità nei confronti del governo centrale di Siena.
Tuttavia, questa condizione cessò nel luglio 1279, quando Tacco occupò il castello di Torrita di Siena, dandolo poi alle fiamme. Nella battaglia che ne derivò, Tacco ferì gravemente Jacopino da Guardavalle. Per questo motivo, e su iniziativa dei conti di Santa Fiora, Tacco ed il resto della Banda dei Quattro furono condannati dal tribunale del comune di Siena, che diede loro la caccia per molti anni ancora, fino a catturarli tutti nel 1285.

Dopo essere stati torturati, lo zio Ghino di Ugolino ed il padre Tacco di Ugolino furono giustiziati in piazza del Campo a Siena nel 1286. La sentenza fu emanata dal famoso giudice Benincasa da Laterina (nato ad Arezzo) il quale, tra l'altro, dopo qualche anno venne nominato senatore ed auditor presso la corte dello Stato pontificio. Ghino ed il fratello Turino sfuggirono alla morte soltanto perché ancora minorenni, e rimasero fuori dalla scena per due o tre anni.

 

Nel 1290 Ghino di Tacco riprese, per così dire, ufficialmente la «remunerativa» attività del padre: sappiamo infatti che fu condannato ad una sanzione amministrativa di 1000 soldi per una sua rapina effettuata vicino a San Quirico d'Orcia. Nel frattempo Ghino manifestò l'intenzione di occupare una fortezza vicino a Sinalunga, senza l'autorizzazione del Comune di Siena. Questo non fu tollerato dall'autorità centrale di Siena, che bandì lo stesso Ghino dal territorio della repubblica. Ghino fuggì, occupando la fortezza di Radicofani (fino ad allora ritenuta impenetrabile), sempre in territorio senese ma al confine con lo Stato Pontificio. Qui, infatti, Ghino si inserì nella lotta per il possesso della rocca, che poi conquistò facendone il proprio covo.

Dal colle di Radicofani, Ghino continuò le sue scorribande, concentrandosi sui viandanti che passavano nella sottostante via Francigena, fondamentale via di comunicazione usata dai pellegrini in viaggio verso Roma (una delle più importanti vie di comunicazione medievali). Ghino compiva delle imboscate ai viaggiatori, si informava dei loro reali beni, poi li derubava quasi completamente, lasciando tuttavia ad essi di che sopravvivere ed offrendo loro un banchetto. Per questo motivo, e perché lasciava liberi di proseguire sia i poveri sia gli studenti, Ghino di Tacco fu considerato un ladro gentiluomo, una sorta di Robin Hood ante litteram.

 

Fiero di questa sua fama, sentì il dovere di vendicare padre e fratello. Per questo si recò a Roma alla ricerca di Benincasa da Laterina, ormai diventato un importante giudice della corte dello Stato Pontificio. Al comando di quattrocento uomini e armato di una picca, entrò nel tribunale papale nel Campidoglio e decapitò il giudice Benincasa, infilandone poi la testa sulla picca che portò nella rocca di Radicofani dove a lungo ne espose lo scalpo appeso al torrione.

Fu proprio questo reale esempio di contrappasso, al limite tra un golpe ed un'impresa cavalleresca che Dante Alighieri citò nei suddetti versi 13-14 del VI canto del Purgatorio della Divina Commedia, descrivendo il Secondo ripiano del Purgatorio, quello dove scontano la pena i Negligenti.
Compiuto questo macabro ma teatrale gesto, Ghino tornò a compiere scorribande in val d'Orcia, continuando ad alimentare attorno a sé un alone leggendario di fiero ed imbattibile guerriero. È in questo periodo che si colloca l'altro fatto che riportò Ghino alla ribalta letteraria.

Boccaccio, nella II novella del X giorno del Decameron, parla del trattamento che Ghino di Tacco riservò all'abate di Cluny - Ghino di Tacco piglia l'abate di Clignì e medicalo del male dello stomaco e poi il lascia quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa e fallo friere dello Spedale - .

Questi, nel viaggio di ritorno da Roma dopo aver portato al papa Bonifacio VIII il frutto della riscossione dei crediti della Chiesa francese, decise di curare il suo mal di fegato e stomaco (dovuto ai bagordi romani) con le acque termali di San Casciano dei Bagni, già allora nota stazione termale. Ghino, saputo dell'arrivo dell'importante e ricco abate, organizzò l'imboscata e lo rapì, senza causargli alcun male. Ghino rinchiuse l'abate nella sua torre della rocca di Radicofani, nutrendolo solo a pane, fave secche e vernaccia di San Gimignano. Questa dieta fece "miracolosamente" passare il mal di stomaco all'abate, il quale convinse il papa Bonifacio VIII a perdonare Ghino di Tacco per l'assassinio del giudice Benincasa, nominandolo addirittura Cavaliere di S.Giovanni e Friere dell'ospedale di Santo Spirito, facendolo benvolere anche da Siena.

Un episodio simile viene narrato in una novella quattrocentesca di san Bernardino da Siena. Ghinasso incontra « uno abbate grasso grasso », diretto al Bagno di Petriuolo al fine di dimagrire e guarire dal mal di stomaco. Dopo averlo preso in custodia, lo tiene alcuni giorni rinchiuso, dandogli solo fave e acqua fresca per i primi tre giorni. Successivamente aumenta la razione con del pane secco. Dopo la cura l'abate è guarito: Ghinasso lo interroga sulla cifra che avrebbe speso ai bagni e chiede al religioso la somma. L'abate, giunto a Roma, raccomanda Ghinasso a tutti coloro che abbiano un problema simile al suo.

 

Alcuni storici - (senza fonte) - ritengono che Ghino sia morto a Roma. Secondo altri - (senza fonte) -, invece, a seguito del perdono papale e quello senese, Ghino di Tacco non dovette più nascondersi e darsi alla macchia ma, da «gentiluomo» qual era si dedicò agli altri, tanto che, nel secondo ventennio del XIV secolo, morì assassinato cercando di sedare una rissa fra fanti e contadini scoppiata ad Asinalonga (l'antico nome dell'odierna Sinalunga), a soli due chilometri dal suo luogo di nascita. Tra quelli che ritengono che Ghino sia morto a Sinalunga vi è Benvenuto da Imola, ritenuto abbastanza attendibile perché quasi coevo di Ghino, del quale diceva, tra l'altro, che non fu infame come alcuni scrivono... ma fu uomo mirabile, grande, vigoroso, contribuendo all'opera di riabilitazione del personaggio, già iniziata da Dante prima e Boccaccio poi. I discendenti di Ghino, secondo questa ipotesi, assunsero il cognome di Ghini.

 
 
 

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