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Così il Repetti nel: Dizionario Geografico, Fisico e Storico della Toscana
RADICOFANI fra la Val
d'Orcia e la Val di Paglia. - Castello con Terra sottostante che siede
sopra un monte omonimo, capoluogo di Comunità e di Giurisdizione, con
pieve arcipretura (S. Pietro) nella Diocesi di Chiusi, Compartimento di
Siena.
[...] Anche un istrumento del 13 ottobre 1248 fu rogato nel cassero di Radicofani mezzo secolo dopo che, al dire del Boccaccio, vi signoreggiò il nerboruto Ghino di Tacco da Torrita, quando fece rinchiudere e medicare lo stomaco in modo singolare al ricco abbate di Cluny nel passare che faceva egli ed il suo seguito di sotto a Radicofani per recarsi a far uso de'vicini bagni minerali di San Casciano.
[...] Comunità di
Radicofani. - Il territorio di questa Comunità occupa una superficie di
33215 quadrati, 1433 dei quali sono presi da corsi d'acqua e da strade.
- Nel 1833 vi abitavano 2412 persone, a proporzione di 61 individui per
ogni miglio quadrato di suolo imponibile.
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La rocca di Radicofani
è menzionata la prima volta nel 973 in un documento edito dal marchese
Lamberto di Ildebrando. Essa controlla dall’alto dei suoi quasi mille
metri la via Cassia, che le passa più in basso e poco distante fra il
Lazio e la Toscana. Nel quindicesimo secolo, quando era già una
fortezza, i Senesi, che la ebbero in proprietà, costruirono addirittura
un nuovo tracciato stradale per sfiorare il maniero, una deviazione
della Cassia, con danneggiamento di questa, per far sì che i pellegrini
in cammino per la via Francigena verso Roma fossero controllati e
possibilmente gabellati. La presenza di tre spedali nel borgo omonimo
vicino raccontano della sua originaria funzione di sosta e ricovero per
i tanti viaggiatori verso la benedizione e l’indulgenza papale. Nel suo
viaggio lungo la via Romea, un pellegrino di Canterbury scrive di
Rodecoc, piazzaforte maestosa identificabile in Radicofani nella Val di
Paglia.
Il feudo di Radicofani prende
le mosse il 29 settembre del 1028, quando il conte Ildebrando degli
Aldobrandeschi cedette quei luoghi a un piccolo nobile locale, tale
Foscolo di Pietro. Due anni dopo il figlio di questi la donò all’Abbazia
di San Salvatore che la tenne per diverso tempo recuperando la
tradizione carolingia di donare territori alla Chiesa romana.
Esiste anche un protocollo
d’intesa del 29 maggio 1153, firmato a Roma da papa Eugenio III con
alcuni consoli romani e dall’abate Ranieri, primo dei monaci della
abbazia amiatina, nel quale si sancisce col consenso dei vassalli di
Radicofani, la cessione al Papa della metà del borgo di Radicofani e di
quello sottostante il castello, con tutti i diritti, censi e livelli
eccetto la giurisdizione canonica delle chiese situate nel castello
stesso e nel borgo di Radicofani. A contropartita la Camera apostolica
si obbligava a retribuire l’abbazia amiatina di sei marche d’argento
l’anno. Se non fossero state pagate le marche per tre anni consecutivi,
il contratto sarebbe stato nullo così da far ritornare in mano ai monaci
di san Salvatore Radicofani e tutto il feudo.
Nel frattempo la proprietà della metà di Radicofani aveva consentito alla chiesa di Roma di istituire un castellano alla rocca di Radicofani con un manipolo di soldati: Adriano IV, approfittando del possesso della metà del feudo e temendo l’avanzata di Federico il Barbarossa, aveva infatti costruito nel 1159 una cinta muraria a perimetro di Radicofani, munendola di quattro torri a difesa della rocca. Le fortificazioni furono potenziate da Innocenzo III nel 1198, fino a che nel 1201 l’imperatore Ottone IV riconobbe lo stato dei fatti, cioè il castello di Radicofani come punto di confine della Donazione di San Pietro.
Nel 1262 la famiglia guelfa
senese dei Salimbeni trovò scampo a Radicofani dove riparò insieme ad
altri fuoriusciti guelfi. Per quasi due secoli, tranne l’intermezzo del
possesso del ghibellino Ghino di Tacco fra il 1295 e il 1300, la
fortezza, divenuta così una parte importante nelle lotte politiche e
armate della storia della Toscana, fu gestita sostanzialmente dalla
Repubblica senese e dallo Stato Pontificio fino a tutto il Quattrocento.
Da allora in poi Radicofani
seguì le sorti politiche della Repubblica di Siena fino alla caduta di
Montalcino. Nel 1555 Chiappino Vitelli, generale di Cosimo I, provò
invano a espugnare Radicofani con una potente artiglieria, ma solo con
la caduta di Montalcino (1559) ultima piazzaforte dei repubblicani
senesi, ci fu la resa anche di Radicofani.
Dopo lo scoppio della
polveriera del 1735 il castello crollò in gran parte fino a essere
abbandonato del tutto. Della Rocca più antica, che aveva una struttura
triangolare, rimase solo la torre principale, a foggia di mastio,
largamente integrata coi restauri fascisti del 1929.
La Fortezza di Radicofani ha
una struttura difensiva esterna di forma pentagonale, mentre quella
interna ha forma triangolare con le rovine delle tre torri angolari e un
corpo centrale (cassero) restaurato e visitabile. Tra l'ingresso ed il
cassero si trova un ampio piazzale chiamato la Scoperta. |
Ghino di Tacco La data di nascita esatta di Ghino è incerta, ma si colloca di certo nella seconda metà del XIII secolo, viste le testimonianze che si hanno circa le scorribande della Banda dei Quattro composta da suo padre Tacco di Ugolino, suo zio Ghino di Ugolino ed i due piccoli fratelli, lo stesso Ghino che era il primogenito e Turino, il minore. Fin da piccolo, infatti, Ghino accompagnava il padre e lo zio nelle scorrerie nei dintorni del suo luogo di nascita, il piccolo castello-fattoria de La Fratta, nella Val di Chiana senese che allora faceva parte del territorio di Torrita. Il motivo dell'attività di briganti va ricercato probabilmente nella rendita, ovvero il prelievo della ricchezza terriera esercitato dalla Chiesa senese a favore dello Stato Pontificio, tassa ritenuta eccessiva dai nobiluomini ghibellini della Fratta dei Cacciaconti.
In quell'epoca i castelli
della zona, Asinalonga (l'odierna Sinalunga), Scrofiano, Rigomagno,
Farnetella, Bettolle, Serre di Rapolano, Torrita di Siena, erano tutti
di proprietà di uno dei membri della potente famiglia senese Cacciaconti
Tolomei. Questo gli garantiva una sorta di impunità nei confronti del
governo centrale di Siena. Dopo essere stati torturati, lo zio Ghino di Ugolino ed il padre Tacco di Ugolino furono giustiziati in piazza del Campo a Siena nel 1286. La sentenza fu emanata dal famoso giudice Benincasa da Laterina (nato ad Arezzo) il quale, tra l'altro, dopo qualche anno venne nominato senatore ed auditor presso la corte dello Stato pontificio. Ghino ed il fratello Turino sfuggirono alla morte soltanto perché ancora minorenni, e rimasero fuori dalla scena per due o tre anni.
Nel 1290 Ghino di Tacco riprese, per così dire, ufficialmente la «remunerativa» attività del padre: sappiamo infatti che fu condannato ad una sanzione amministrativa di 1000 soldi per una sua rapina effettuata vicino a San Quirico d'Orcia. Nel frattempo Ghino manifestò l'intenzione di occupare una fortezza vicino a Sinalunga, senza l'autorizzazione del Comune di Siena. Questo non fu tollerato dall'autorità centrale di Siena, che bandì lo stesso Ghino dal territorio della repubblica. Ghino fuggì, occupando la fortezza di Radicofani (fino ad allora ritenuta impenetrabile), sempre in territorio senese ma al confine con lo Stato Pontificio. Qui, infatti, Ghino si inserì nella lotta per il possesso della rocca, che poi conquistò facendone il proprio covo. Dal colle di Radicofani, Ghino continuò le sue scorribande, concentrandosi sui viandanti che passavano nella sottostante via Francigena, fondamentale via di comunicazione usata dai pellegrini in viaggio verso Roma (una delle più importanti vie di comunicazione medievali). Ghino compiva delle imboscate ai viaggiatori, si informava dei loro reali beni, poi li derubava quasi completamente, lasciando tuttavia ad essi di che sopravvivere ed offrendo loro un banchetto. Per questo motivo, e perché lasciava liberi di proseguire sia i poveri sia gli studenti, Ghino di Tacco fu considerato un ladro gentiluomo, una sorta di Robin Hood ante litteram.
Fiero di questa sua fama, sentì il dovere di vendicare padre e fratello. Per questo si recò a Roma alla ricerca di Benincasa da Laterina, ormai diventato un importante giudice della corte dello Stato Pontificio. Al comando di quattrocento uomini e armato di una picca, entrò nel tribunale papale nel Campidoglio e decapitò il giudice Benincasa, infilandone poi la testa sulla picca che portò nella rocca di Radicofani dove a lungo ne espose lo scalpo appeso al torrione.
Fu proprio questo reale
esempio di contrappasso, al limite tra un golpe ed un'impresa
cavalleresca che Dante Alighieri citò nei suddetti versi 13-14 del VI
canto del Purgatorio della Divina Commedia, descrivendo il Secondo
ripiano del Purgatorio, quello dove scontano la pena i Negligenti. Boccaccio, nella II novella del X giorno del Decameron, parla del trattamento che Ghino di Tacco riservò all'abate di Cluny - Ghino di Tacco piglia l'abate di Clignì e medicalo del male dello stomaco e poi il lascia quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa e fallo friere dello Spedale - .
Questi, nel viaggio di
ritorno da Roma dopo aver portato al papa Bonifacio VIII il frutto della
riscossione dei crediti della Chiesa francese, decise di curare il suo
mal di fegato e stomaco (dovuto ai bagordi romani) con le acque termali
di San Casciano dei Bagni, già allora nota stazione termale. Ghino,
saputo dell'arrivo dell'importante e ricco abate, organizzò l'imboscata
e lo rapì, senza causargli alcun male. Ghino rinchiuse l'abate nella sua
torre della rocca di Radicofani, nutrendolo solo a pane, fave secche e
vernaccia di San Gimignano. Questa dieta fece "miracolosamente" passare
il mal di stomaco all'abate, il quale convinse il papa Bonifacio VIII a
perdonare Ghino di Tacco per l'assassinio del giudice Benincasa,
nominandolo addirittura Cavaliere di S.Giovanni e Friere dell'ospedale
di Santo Spirito, facendolo benvolere anche da Siena.
Alcuni storici - (senza fonte) - ritengono che Ghino sia morto a Roma. Secondo altri - (senza fonte) -, invece, a seguito del perdono papale e quello senese, Ghino di Tacco non dovette più nascondersi e darsi alla macchia ma, da «gentiluomo» qual era si dedicò agli altri, tanto che, nel secondo ventennio del XIV secolo, morì assassinato cercando di sedare una rissa fra fanti e contadini scoppiata ad Asinalonga (l'antico nome dell'odierna Sinalunga), a soli due chilometri dal suo luogo di nascita. Tra quelli che ritengono che Ghino sia morto a Sinalunga vi è Benvenuto da Imola, ritenuto abbastanza attendibile perché quasi coevo di Ghino, del quale diceva, tra l'altro, che non fu infame come alcuni scrivono... ma fu uomo mirabile, grande, vigoroso, contribuendo all'opera di riabilitazione del personaggio, già iniziata da Dante prima e Boccaccio poi. I discendenti di Ghino, secondo questa ipotesi, assunsero il cognome di Ghini. |
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