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Il pellegrino, è stato giustamente
detto, "vive lo spazio per trascenderlo" in quanto ogni
pellegrinaggio è sempre e comunque una marcia verso l'"altrove",
durante la quale vengono vinte le difficoltà del viaggio e si attua
il dominio sullo spazio in forza di una pulsione profonda che è
anche una lotta contro se stessi e che porta in definitiva a una
crescita di coscienza.
Ma altre finalità ed esigenze, che potremmo genericamente definire
"mondane", sempre si sono intrecciate alle motivazioni squisitamente
religiose.
Sono poi da aggiungere i problemi posti dal ménage quotidiano, che
implicavano la necessità per il viandante di poter disporre di punti
di assistenza materiale (spedali, osterie, alberghi), accanto ai
luoghi che servivano al pellegrino da supporto alla propria fede
attraverso messaggi, segni e simboli religiosi che in essi si
trovavano (reliquie, corpi santi, simulacri miracolosi ecc).
La "memoria" dell'arcivescovo di Canterbury, Sigeric, altro non è
che un lungo elenco di località (settantanove per la precisione) che
chiaramente intendeva indicare ai pellegrini "romei" i luoghi nei
quali conveniva fermarsi onde profittare dei servizi offerti dalle
strutture ricettive e assistenziali esistenti.
E potremmo altresì leggerne un invito ai pellegrini di procedere più
lentamente, di aumentare la frequenza delle soste, con il chiaro
scopo di far loro gustare quello che di buono tali zone offrivano.
In Valdelsa ad esempio sono ricordati ben otto punti di sosta e, la
maggiore frequenza delle tappe, non era certamente imposta dalle
difficoltà del percorso, praticamente inesistenti rispetto a quanto
il pellegrino aveva già affrontato o doveva affrontare. Essa si
presentava invece come una sorta di "terra promessa", per la
feracità del suo suolo, per la ricchezza e la varietà della sua
agricoltura, per le numerose piccole città e gli ancor più numerosi
villaggi e castelli che ne punteggiavano il territorio. È questa,
forse, la ragione per la quale nel tratto valdelsano della via
Francigena la "memoria" dell'arcivescovo Sigeric indica così tanti
luoghi di sosta.
Il testo dell'abate Nikulas, ad esempio, è ricco di dati sulle
chiese visitate, sui corpi santi e sulle reliquie miracolose
trovate. Siamo, è vero, in una società sacralizzata, e il fattore
religioso è di gran lunga preminente,
ma è evidente non si poteva non interessarsi di altri aspetti della
realtà. Tanto è vero che, giunto a Siena, l'abate afferma anche, e
in modo esplicito, tutto il suo apprezzamento per le locali
bellezze: "Siena, una bella città con sede vescovile presso la
chiesa di Santa Maria; qui ci sono le donne più avvenenti.
Inoltre il nostro abate, che scriveva evidentemente per i suoi
connazionali che dopo di lui avrebbero intrapreso il pellegrinaggio
a Roma e a Gerusalemme, da preziose indicazioni riguardo
all'assistenza "corporale".
Certo è che i principali itinerari, dal Camino di Santiago de
Compostela alla via Francigena, per i quali scorreva il grande
flusso della peregrinazione europea, nei secoli XII e XIII dovevano
presentarsi punteggiati di strutture ricettive a pagamento
(alberghi, osterie) nate per sopperire alle necessità dei pellegrini
che non si contentavano dei servigi prestati dagli spedali e dai
vari enti assistenziali che, riguardo al cibo, non dovevano essere
gran cosa. Infatti, quando (come avveniva il più delle volte) non
ci si limitava che a fornire il solo giaciglio, l'alimentazione
offerta consisteva, come riportano i documenti dell'epoca, in "panis
et aqua et coquina", oppure in "panis, tres calici vini et
pulmentaria''. È da tener presente che con i termini "coquina" e "pulmentaria"
si intendeva il companatico, per lo più rappresentato da vegetali.
Ciò spiega perché, quando il pellegrinaggio divenne un fenomeno che
coinvolse strati sempre più ampli della popolazione, crebbe il
numero degli alberghi "professionisti", e nacquero anche le
lamentele nei confronti degli osti e degli albergatori. Non dovevano
essere pochi, infatti, coloro che si approfittavano dello stato di
bisogno dei viandanti.
Il sermone " Veneranda dies", fornisce un'ampia casistica di quanto
poteva accadere di spiacevole durante il cammino.
Di seguito alcuni passi, tradotti dal latino, del testo originale:
"Alcuni (albergatori) all'ingresso delle città vanno incontro ai
pellegrini baciandoli come se fossero loro parenti venuti da lontani
paesi [...] guidandoli alle loro case, promettono ogni bene
[...]fanno loro assaggiare dell'ottimo vino, e poi danno loro quello
peggiore. Altri propinano una bevanda inebriante invece che vino,
altri vendono vino adulterato per buono. Altri fanno loro mangiare
carne o pesce cucinati da due o tre giorni, e così i pellegrini si
ammalano. Alcuni mostrano misure di grande capienza e poi vendono
misurando con quelle piccole [...] Certi promettono un comodo letto,
e ne danno poi uno cattivo [...]. Il cattivo oste non fornisce un
buon letto ai pellegrini suoi ospiti, se non gli pagano anche la
cena o una moneta d'argento. Se la moneta del pellegrino vale il
doppio della valuta corrente, il cattivo albergatore l'accetta solo
per il valore di una. Se poi non vale che una moneta, non l'accetta
se non per mancia. "
Il veneziano Bartolomeo Fontana, nella sua relazione del viaggio a
Santiago de Compostela (1538) segnala, lungo l'itinerario, i luoghi
dove si può trovare una conveniente ospitalità. E accenna anche alla
possibilità che i pellegrini talora hanno di procurarsi il cibo da
ciò che è offerto dalla natura dei luoghi: fiumi dove si possono
pescare carpe; boschi ove è possibile raccogliere "gran quantità di
fonghi”; campagne coltivate ad alberi da frutta, dove si può contare
sulla generosità dei contadini per averne in offerta.
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Oggetti da
cucina
Oggi abbiamo molti più oggetti da
cucina che nel medioevo, ma non abbiamo più bisogno di una parte di
quelli che loro avevano. Macinare.
Alcuni cereali minori come il miglio, l'orzo, il farro, conveniva
macinarseli in proprio e, se non si era la moglie del mugnaio, ci
voleva in casa un oggetto in pietra composto di due elementi: un
sopra da girare e un sotto che accogliesse il cereale macinato. Nel
medioevo erano diffuse, più di oggi, la coltivazione e il consumo di
cereali minori (farro, miglio, orzo, panico, spelta ecc.) il cui uso
spesso prescindeva dalla macinazione (che aveva un costo e che
rappresentava pertanto un balzello rilevante, specialmente per i
ceti meno abbienti).
Il frumento era il cereale
predominante nelle città, specialmente quelle che si emancipano
relativamente presto dal primato dell'agricoltura e che quindi
diventano progressivamente capaci di orientare la produzione
agricola stessa, attraverso il mercato o attraverso la mezzadria,
verso le tipologie di prodotto predilette dagli stessi cittadini.
Un bel tavolo di marmo levigato era un importante strumento di
lavoro nelle cucine medievali. Il legno si taglia con l'uso, si
imbeve, mal si pulisce, si impregna di odori. La pietra è più
pratica e basta un panno umido con un po' di aceto per toglierle
qualsiasi ricordo delle preparazioni precedenti.
Le stoviglie.
Anche la cena più povera non può fare a meno di stoviglie e di acqua
pulita, anche se raramente corrente. Probabilmente uno o più
cucchiai di legno o di metallo e una o più tazze, di legno anch'esse
o di coccio, c'erano in ogni casa e i pellegrini se ne portavano una
sempre dietro per rendersi indipendenti almeno nel consumo. Anche se
in alcune zone francigene resta l'eco lontana della tradizione
medievale di usare una mezza forma di pane come recipiente per
depositare davanti a sé il cibo personale preso dal contenitore
comune. Il coltello, poi, strumento di difesa, di lavoro, di
pulitura del cibo catturato o trovato, di infilzamento del boccone
ben prima che nascesse la forchetta, doveva essere sempre a portata
di mano, specialmente nelle campagne.
In ogni caso, gli oggetti da cucina erano pochi, essenziali. Non
poteva mancare in una famiglia, che non fosse proprio povera, una
grossa pentola di rame, il paiolo. I poveri si dovevano accontentare
di un pentolone di coccio che complicava la vita perché non poteva
essere messo direttamente sul fuoco vivo, pena il crettarsi, e
quindi richiedeva un luogo separato dal focolare in cui depositare
brace e cenere per una diffusione più dolce del calore. Oggi chi
passa dalla povertà alla miseria dignitosa si compra un frigorifero;
nel medioevo invece la spesa che segnava il cambiamento di status
fosse proprio il paiolo. Il suo destino era di passare una lunga e
laboriosa vita appeso a una trave mobile al fianco del focolare. Al
mattino presto serviva per fare il formaggio. Il rito del formaggio,
se ci si pensa bene, consente delle ritualità accessorie: il latte
tiepido per la colazione dei familiari, i ritagli della cagliata che
sfuggono alla pigiatura nella forma come dono ai più piccoli il
siero per il successivo rito della ricotta e il siero esausto per
quello del pasto del maiale. Finito il rito del formaggio, iniziava
il rito del brodo ossia il pasto tipico quotidiano di una famiglia
non ricca dell'alto medioevo.
Uno spiedo, una griglia e degli alari
per trattare la carne sul fuoco del camino, un mattarello per
spianare la pasta per torte, pasticci e qualche teglia per infornare
dovevano completare l'apparato domestico della cucina.
Il forno era quasi sempre dedicato al pane, che si cucinava una
volta alla settimana, e solo per le feste alle torte e alle carni,
perché il pane aveva una sua dignità, che non doveva contaminarsi
coi grassi di cottura, gli schizzi, gli odori intensi dell'aglio e
delle droghe.
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Materie prime e
arte della conservazione
"Non esistono più le stagioni"
dicevano, e dicono, gli anziani. Non esistono più le stagioni perché
oggi abbiamo tutto di tutto e in qualsiasi stagione. Il
supermercato, paese di Cuccagna che ogni tanto ci spaventa con
mucche pazze e diossina nelle carni, è la morte della stagionalità.
Nessun ragazzo o ragazza di oggi può pensare che d'inverno i fagioli
dovrebbero essere solo secchi, che la verdura invernale dovrebbe
essere per lo più sotto forma di crauti, che la frutta nella
stagione fredda, a parte arance, mele e limoni, dovrebbe essere
secca o sotto forma di marmellate. Nel momento in cui ci si priva
dell'onnipotenzialità del supermercato, si ricrea automaticamente la
stagionalità delle potenzialità gastronomiche. Ci si rende anche
conto che certi cibi, certe ricette potevano nascere soltanto
d'inverno, come altre solo d'estate.
I progressi nell'arte culinaria si
sviluppano nell'invenzione, ma anche nella conservazione. I
progressi del primo tipo appartengono spesso alla cultura della
fame, all'arte di arrangiarsi, alla trasformazione di materie prime
di ripiego in strumenti di condivisa quotidia-nità; la seconda
tipologia appartiene alla cultura dell'abbondanza, al-
l'accumulazione del capitale alimentare. I poveri possono conservare
verdure per l'inverno e la carne del maiale o delle oche per i
momenti di bisogno, ma non si va molto oltre la fermentazione dei
cavoli e l'affumicatura e la salatura di carni e formaggi.
La salatura dei prodotti.
Non a caso si è detto che il sale era il frigorifero del medioevo.
Ciò che non può essere consumato deve essere salato. Per il sale si
diventava banditi, ossia anche la persona più onesta, avendone
l'occasione, ricorreva al contrabbando, andando in proprio per
strade impervie fino alle fonti del sale, o facendosi portare di
nascosto sacchi di sale che non erano passati dalla dogana del
signore. Evitare la gabella del sale e quella della macinatura dei
cereali era la premessa indispensabile per una vita non ricca ma
dignitosa. Niente è più medievale di tale ostinata ricerca di
salvarsi da una gabella esosa ed efficiente: a costo di riempire i
campanacci delle pecore transumanti di un sacchetto della preziosa
sostanza.
Ma ci sono anche altri criteri di
conservazione. Il più curioso è la pressatura. La farina di castagne
veniva conservata in piccole casse di legno dove la farina veniva
"battuta" per far uscire l'aria dal contenitore fino a diventare una
sorta di solido rettangolare molto compatto. Evitava la formazione
di muffe e l'invasione delle pericolose farfalline della farina. Per
riutilizzarla, la si grattugiava con una spatola dentata, solo quel
tanto che serviva al momento. Le uova venivano conservate nella
calce spenta (calce spenta nell'acqua fino a darle una consistenza
di pasta dentifricia). In zone di sorgenti sulfuree per integrare la
salatura, il cui costo era sempre rilevante, e quindi risparmiare
sul sale fatto assorbire a salumi e formaggi, si usava una poltiglia
di tale acqua sulfurea mescolata con argilla per ricoprire l'esterno
delle forme di cacio e dei prosciutti.
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Conservanti
Già nell'antichità si sapeva
intuitivamente che, oltre al miele, anche il sale, il fumo,
l'essiccazione bloccano i processi degenerativi del cibo.
Certe acquisizioni scientifiche di pochi anni fa ci dicono che
intuitivamente i nostri antenati praticavano usi che solo oggi
sappiamo essere eccezionalmente appropriati per prolungare la
conserva-zione dei cibi.
Solo oggi sappiamo che l'aglio è un potentissimo antibatterico,
quanto e forse di più del pepe. Riflettiamo però sul fatto che
l'aglio era un prodotto locale, facilmente reperibile in ogni casa,
mentre il pepe era un costoso prodotto d'importazione. Ispiriamoci,
a titolo di esempio, alla concia per la lavorazione dell'impasto per
la finocchiona (sale, pepe, vino, aglio e semi di finocchio).
Quattro conservanti naturali e un aromatizzante a basso costo.
La distillazione dell'alcol probabilmente nasce nel mondo arabo con
gli alambicchi, nome tipicamente arabo, come forse la stessa parola
al-cohol. La bollitura dei mosti per rinforzare il vino o la sapa
per cucinare non sono neanche lontane parenti della distillazione.
Quindi non si hanno tracce di distillazione in Europa fin dopo le
Crociate, segno che quello fu il momento di scambio non solo del
prodotto, ma anche dei mezzi di produzione e delle tecniche.
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Antipasti e verdure
Difficilmente una massaia dell’epoca
non aveva qualcosa di caldo, pronto per essere distribuito. Di
conseguenza, l'idea di un "qualche cosa" che viene posto sulla mensa
in attesa che il piatto di portata sia pronto, non torna nella
logica medievale. Però bisogna riuscire a introdurre quelli che noi
moderni chiamiamo antipasti, specialmente se, come di recente
accade, sono a base di cacciagione.
Cacciare nel medioevo era riservato ai
ricchi e ai nobili, anzi molto più ai nobili che ai ricchi, anche se
spesso i due concetti tendevano a coincidere. Chi possedeva la
terra, si riservava una parte non indifferente del bosco, con
possesso esclusivo e controllato da personale appositamente addetto,
per coltivare quell'esercizio, la caccia, che era la conseguenza e
forse anche un obbligo dello status nobiliare; e che consentiva
anche una dieta connessa direttamente con questo status.
La gotta nel medioevo, e anche dopo,
era quindi una malattia "professionale", nel senso che era tipica
dei nobili. Però la cacciagione, per quanto diplomi, leggi,
disposizioni private e punizioni esemplari ne vietassero l'accesso
ai non nobili, non era certo esclusiva del ceto più favorito.
Con la fame endemica che serpeggiava
ovunque, chi si trovava a vivere ai margini di un bosco regio, non
si peritava certo a tendere trappole e a scoccare una freccia
all'imbrunire verso un cervo, un orso o anche una fagiana intenta a
covare o a nascondersi nelle sterpaglie. Le punizioni per i
cacciatori di frodo erano tremendamente esemplari e assurdamente
gravi.
Anche la carne poteva rappresentare un
corpo del reato o almeno un pesante indizio in tal senso, se non
veniva rapidamente trattata, ossia trasformata secondo i
tradizionali criteri di conservazione di lunga durata che erano
l'affumicatura, la salatura, la confezione in insaccati e salumi.
L'impressione è che è più facile concepire che nel medioevo si
avesse a portata di mano un salume di cervo di quanto non sia
attualmente.
Ci avete fatto caso che i cibi
contemporanei che consentono, nonostante le variazioni del gusto, un
accostamento radicale tra dolce e salato sono quasi tutti antipasti?
Prosciutto e melone, fichi e salame, necci freddi e frittata e così
via. Non è difficile da scoprire, sotto questi accostamenti, la
signora fame.
Ma non la fame congenita, bensì una
fame temporanea, reversibile, del marito che torna dal campo con un
calo di zuccheri e sbraita per avere qualcosa da mettere sotto i
denti in attesa che cuociano i maccheroni, del pellegrino che arriva
distrutto all'osteria e sente più il borbottio dello stomaco che le
galle ai piedi, del signore che arriva alla fattoria con quel certo
languorino e non è il caso di farlo attendere.
L'accostamento dolce-salato è una
risorsa di fortuna delle massaie intelligenti.
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Il brodo
Oggi in Italia un pasto senza pasta è
un’insolita eccezione. Nel medioevo invece al centro del rito
gastronomico c’erano le zuppe.
Pappe, creme, zuppe e polente
(ovviamente prive di mais) dovevano essere abituali nel medioevo per
più ragioni: perché i denti cadevano rapidamente e non venivano
certo sostituiti da protesi; perché infanti, malati e anziani ne
avevano ovvio bisogno, per la loro digeribilità; perché poi sono
cibi di pressoché immediata disponibilità in presenza di turni di
refezione (lavoratori dei campi, soldati, pellegrini) e perché
rendono utilizzabili le granaglie minori e le verdure, che sono le
risorse di una dignitosa povertà, affamata ma non sprovveduta.
Le zuppe in apparenza si somigliano
tutte. Hanno alla base un soffritto di odori, magari accompagnato da
una bella fetta di lardo tritata e da olio d'oliva sul fondo del
pentolone che è stato usato al mattino per fare il formaggio. Poi si
gettano dentro verdure dell'orto sminuzzate e granaglie, a seconda
della ricchezza della casa, e legumi, anche questi a seconda delle
disponibilità economiche familiari, poi acqua abbondante. Per
salare, oltre ai grani che ricoprono il lardo, si saranno usate tre
o quattro acciughe salate sminuzzate: il corrispettivo medievale dei
dadi da brodo. Si copre il pentolone con un coperchio robusto e si
va a fare le faccende, ricordando alla figlia maggiore di mescolare
ogni tanto, badando pure che i figli più piccoli non si brucino.
Questo, è quello che Fabrizio Vanni ha chiamato anni fa, il "brodo
primordiale" tanto per ribadire che sta all'origine dell'arte di
sfamarsi nel medioevo. Se granaglie e legumi secchi sono stati
tritati in precedenza, la zuppa assomiglierà al pulmentum dei romani
antichi, ossia una sorta di polenta ante luterani, anch'essa
mutevole da zona a zona e da famiglie ricche a famiglie povere. Uno
studioso ha fatto notare come i derivati dei cereali abbiano da
sempre nomi che iniziano con la lettera "P": puls, pulmentum, pane,
pasta, pizza, polenta... Solo quest'ultima nel medioevo non c'era,
non essendoci il granoturco, ma avrà avuto ovunque altrettanto
apprezzati sostituti, grazie al farro, al grano saraceno, ai cereali
minori e ai legumi.
Il "brodo primordiale" ha un solo
pregio: dopo un'oretta di cottura diventa disponibile ma più cuoce e
migliore diventa, nel senso che si rassoda, ossia diventa una specie
di polenta, può essere tenuto in caldo, può essere servito
immediatamente, via via che le orde fameliche di familiari,
pellegrini e poveracci bussano a chiedere un po' di ristoro. Se le
bocche sono quelle preventivate, bene. Se malauguratamente sono di
più, basta allungare con acqua e far riscaldare il tutto per qualche
minuto. I primi si saziano, gli ultimi sperano di riuscirci, ma,
quanto meno, si riempiono lo stomaco di qualcosa di caldo.
Dal "brodo primordiale", per semplificazione e distinzione
successiva, nascono una gran quantità delle zuppe che adesso noi
oggi conosciamo e apprezziamo: zuppa di ceci e porcini, zuppa di
fiori di zucca e mentuccia…ecc.
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Pasta e gnocchi senza patate
La pasta domestica era quasi sempre
nella forma di maccheroni improvvisati, tagliati alla meglio col
coltello, gettati nell'acqua bollente uno dopo l'altro e conditi in
bianco, con burro e cacio grattugiato.
Nelle feste, e quando la comare poteva
permettersi di perdere più tempo dietro alla cucina, nascevano
tortelli, tortellini, ravioli, agnolotti, cappelletti, cappellacci,
ossia pasta ripiena di carne o verdure e ricotta, con molti aromi
nella mischia.
Il condimento era sempre sobrio.
Burro, formaggio da grattare, funghi, frattaglie di pollame, e
fegatini in particolare, ammesso e non concesso che ci fosse stata
occasione o ragion sufficiente, in precedenza, per tirargli il
collo.
Inoltre, se consideriamo gli
gnocchetti di pasta all'uovo come sostitutivi degli gnocchi di
patate e delle tagliatelle, possiamo rileggere tutte le ricette
moderne, prive ovviamente di pomodoro, come probabili discendenti di
qualcosa di origine medievale, sempre che teniamo conto che un tale
dispendio di tempo e risorse nel medioevo doveva essere giustificato
da un concetto chiave: la festa.
Solo quando è festa si lavora la pasta
col mattarello, si inventano sughi, si uccide del pollame e se ne
usa le interiora in una sorta di cibrèo polifunzionale.
A maggior ragione, se parliamo di torte salate, pasticci, e quanto
la fantasia fa riempire una sfoglia di pasta all'interno di una
teglia per poi ricoprirla con un'altra sfoglia.
Per le gelatine poi, bisognava aver ucciso il maiale, oppure che una
vacca morisse di parto, per utilizzare al meglio le cartilagini
delle zampe, oppure avere a disposizione abbondanza di pesci grassi
come le anguille.
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Le carni
La caccia era incredibilmente
importante nel medioevo, il suo esercizio era un diritto sovrano e,
a discesa, nobiliare.
I non nobili potevano cacciare solo in
funzioni ausiliarie dei rispettivi padroni oppure di frodo, con
rischi assai gravi. La caccia ha riti precisi a partire dall'uso
degli animali per stanare o catturare le prede. La falconeria è
l'arte somma tra tutte quelle attinenti la cattura degli animali.
Anche il dopo caccia ha una sua speciale ritualità. Nel poemetto di
ignoto autore inglese della fine del XIV secolo intitolato Sir
Gawayne and thè Grene Knight {Galvano e il cavaliere verde) l'autore
si dilunga per una cinquantina di versi nella descrizione della
scalcatura a crudo di cervi e daini catturati immediatamente prima.
Descrive la separazione delle carni dalle interiora, dalla pelle, e
la legatura dei pezzi pregiati per meglio trasportarli. Poi ci sono
altre ritualità magiche (si getta "il tributo del corvo" in un
boschetto, si mettono sulla pelle di una delle bestie uccise i
polmoni e i fegati mischiati a pane imbevuto nel sangue per nutrire
i bracchi che hanno collaborato alla caccia).
La carne medievale andrebbe cucinata con l'aceto di vino o meglio
ancora col vino. Per una serie di ragioni: perché l'aceto toglie il
puzzo di rancido, anche in mancanza di pepe o altri aromi esotici,
perché l'aceto abbonda, in quanto il vino medievale, prodotto al
massimo delle potenzialità della pianta, ha basse gradazioni e si
inacidisce entro l'anno. Perché l'aceto ha proprietà antibatteriche:
anche se nel me-dioevo questo si ignora.
Di conseguenza, per le carni medievali, che sono il massimo dello
status, del gusto e della ricchezza profusa nei cibi, la marinatura
è un obbligo. La marinatura non è una tecnica di conservazione. È
una tecnica di adattamento gastronomico. La marinatura con vino,
carota, odori, ginepro e spezie è uno degli elementi che consentono
di sospettare e riconoscere la natura medievale di un cibo. L'afrore
della selvaggina, il puzzo della carne mal conservata, la durezza
dei tagli meno nobili tendono a esser annullati, o almeno si spera,
con la marinatura.
Più la carne fa status (dalla cacciagione alla carne rossa di
allevamento) più ha bisogno della marinatura. Elementi della
marinatura sono il vino (o l'aceto, o l'agresto) e gli aromi. Questi
ultimi sono divisi in due gruppi, ovviamente in base allo status e
alla ricchezza della famiglia: la prima classe è quella degli aromi
esotici, e qui ci si può sbizzarrire (adesso) con una disponibilità
che nel medioevo era condizionata dalle stagioni, dall'andamento dei
commerci internazionali e dal prezzo di mercato delle materie prime,
conseguenza degli altri due fattori.
Pepe, chiodi di garofano, noce moscata, talvolta potranno anche
cozzare fra di loro, ma, in quanto simbolo palese di ricchezza,
saranno stati apprezzati comunque dai commensali. La seconda classe
era quella degli aromi domestici, sempre o quasi sempre disponibili,
e quindi affidati alla sensibilità e al buon senso della massaia:
alloro, ginepro, carota, sedano, prezzemolo, aneto, finocchio,
aglio, scalogno, cipolla, erba cipollina, rafano ecc.
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Il vino
Il vino nel medioevo è un cibo, ossia
un nutriente a tutti gli effetti. Era il carburante dei contadini e
degli artigiani: "Luglio dal gran caldo, bevi bene e batti saldo".
Faremmo bene a considerarlo tale anche noi, tendenti all'obeso, il
vino, perché con la scusa che è una bevanda, fingiamo di ignorarne
l'enorme apporto calorico. A maggior ragione se pensiamo che
l'attuale gradazione dei vini imbottigliati è assai più elevata di
quella dei vini medievali in genere.
Nel medioevo infatti, ma anche dopo,
non è che ci si tenesse molto a fare un vino di qualità: si
preferiva la quantità, perché al padrone andava bene lo stesso, agli
operai a giornata anche. Non c'era bisogno di annacquarlo. Se poi
"svaniva" o si rovinava col tempo, gli stomachi erano forti
abbastanza per continuare a berlo. Gli unici che si preoc-cupavano
della qualità del vino erano i sacerdoti, ma solo per evitare di
fare boccacce durante il rito della messa. Eppure la saggezza
contadina mette in bocca alla vite l'adagio: "Fammi povera e io ti
farò ricco". Povera di tralci e di grappoli, la vite produce al
meglio il suo prodotto che diventa oggi una ricchezza, imitata ma
inimitabile. Nessun contadino ha, mai e poi mai, dato retta a questa
implicita saggezza: anzi, è facile sentire gli (oggi) anziani che
hanno rivoluzionato la viticoltura dagli anni Sessanta del secolo
scorso raccontare che venivano trattati come matti, dai loro
anziani, ora fra i più, se tagliavano via i grappoli in eccedenza
dalle piante.
Anche nel medioevo però il vino è uno dei prodotti di consumo che
tende ad avere una provenienza. Già nell'antichità si distinguevano
i migliori vini in tal modo. Lo si è continuato a fare nel tardo
antico.
Quando poi il commercio diventa una pratica altamente
razionalizzata, le tipologie dei vini e le loro provenienze
diventano elementi di fissazione dei costi e quindi dei prezzi di
vendita.
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Frutta fresca e secca
La frutta fresca, come oggi si
dice "di stagione", sembra essere stata una risorsa
indispensabile per colmare i vuoti di una fame endemica.
Almeno così ci porta a pensare il buonsenso. Anche se in
parecchi statuti tardo medievali si impone di piantare
almeno alcuni alberi da frutto nel proprio terreno e di
coltivare un orto: segno che alcuni proprietari, quasi
certamente i più ricchi, commercianti e finanzieri, non
avevano con la terra quel rapporto razionale che ci si
immaginerebbe.
Nella scala valoriale della
frutta, la sua seccabilità e quindi conservabilità a
oltranza è la chiave primaria di valutazione: noci,
nocciole, semi di zucca, pistacchi introdotti dagli arabi
nel sud d'Italia, sono frutti che si seccano quasi senza
problemi. Anche le sorbe e le nespole, fatte maturare nella
paglia, venivano mangiate molto mature, quando erano giunte
a uno stadio vicino alla fermentazione: il loro pregio era
dovuto al fatto che resistevano fino alla stagione
invernale. Il proverbio recita infatti: "Con il tempo e con
la paglia maturano le sorbe e la canaglia". Nel medioevo i
fichi secchi erano il premio per i bambini bravi, gradito
quant'altri mai, molto più di quanto oggi si apprezzino gli
ovetti di cioccolata. Erano l'offerta a chi giungeva lontano
dalle ore del pasto. Erano il completamento dello stesso per
quella massaia che si sentisse in colpa per la povertà
dell'offerta.
Seccare i fichi è abbastanza facile. Una pianta adulta ne
produce in abbondanza. Il fico ha una sua dignità
nell'iconografia medievale, e questo già dovrebbe essere un
segno di valutatone e di stima. Al controllo della seccatura
dei fichi possono essere addetti anche i fanciulli e quindi
rappresentano un surplus di produzione a poco prezzo.
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Dopocena e veglia
Del modo di stare a
tavola si è detto e scritto parecchio nello stesso
medioevo, e anche dopo; ed è assai facile capire che
chi espone, propone o raccoglie regole in questo
campo tende anche a marcare differenze di status tra
chi segue e chi non segue tali regole; tra chi
accetta o non accetta l'ovvia divisione del lavoro
che si crea anche in questo campo, dove dovrebbe
regnare la massima democrazia"'.
Il pasto, e in
particolare la cena e il dopocena (la veglia), sono
nel medioevo alcune delle poche occasioni di
socializzazione. Hanno quindi una serie di ritualità
predeterminate. La laudatio dei cibi era la prima e
più importante, perché gratificava le cuoche e
indirettamente il capofamiglia che aveva abbondato
nell'attingere alle riserve domestiche (oggi, che si
va al ristorante, si parla, in Toscana specialmente,
sempre di cibo, ma di quello gustato altrove -
snaturando il senso originale di un processo che, in
origine, era giustificato e gratificante per tutti i
presenti).
In seconda istanza, la
veglia affrontava argomenti che stavano a cuore a
entrambe le componenti, quella domestica e quella
ospite, in particolare, data la scarsa circolazione
di informazioni nel mondo contadino, l'ospite era
tenuto a riferire le novità del vasto mondo e, se ne
aveva, le ragioni della sua presenza in loco. A
seconda dell'andamento della conversazione, la
componente domestica poteva riferire della
situazione locale, esaltando o denigrando i
comportamenti della comunità allargata. A parere di
Fabrizio vanni (autore del libro – Antichi
“mangiari” lungo la via Francigena” – e da cui ho
tratto quanto sopra e sotto), la veglia -
contenitore tradizionale, ma molto "aperto" nel
senso che lascia autonomia piena agli organizzatori
locali su contenuti e modalità da proporre -
dovrebbe diventare lo strumento principe
dell'intrattenimento francigeno.
In Toscana ci abbiamo
provato e intendiamo riprovarci. Forse anche nelle
altre regioni meriterebbe. La cosa più difficile è
accordare gli interessi particolari per far sì che
ogni veglia si succeda temporalmente e
geograficamente come se mimasse o accompagnasse il
viaggio di un pellegrino verso Roma.
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Valdarno &
Valdelsa
La zona tra
Altopascio e Fucecchio conserva ancora,
almeno in parte, aspetti selvaggi e
paludosi. Nel medioevo, a parte una stretta
fascia sopraelevata, le Cerbaie, su cui
passava la via Francigena, era palude: di
Bientina a ovest e di Fucecchio a est. Qui
uccelli di passo, pesci e anguille, ma anche
chiocciole e ranocchi dovevano essere cibo
quotidiano per la gran parte della
popolazione. Delle chiocciole, in montagna
si prediligevano le grosse e robuste,
amarognole per essersi nutrite di bosso. In
collina anche quelle con la conchiglia
striata, quasi mimetica. Le più pregiate
erano i "martinacci", chiocciole con il
guscio poco calcificato, che venivano fatte
arrosto, su apposite grate metalliche messe
sul fuoco. Appena il calore le faceva uscire
dal guscio, venivano salate. Ancora pochi
minuti ed erano pronte da gustare: molto
saporite. Oggi i poveri ricci e gli istrici
sono vittime delle automobili. Ma un tempo
che la fame imperversava, venivano uccisi,
gettandoli nell'acqua bollente. Una volta
corti, venivano tolte le spine e usati per
creare intingoli.
Il pane di Altopascio è stato associato alla
via Francigena e ai frati del Tau, quelli
del calderone unto e bisunto, descritto dal
Boccaccio nel Decameron. Il pane nel
medioevo era un ingrediente di riuso
innovativo. Il pane raffermo si usa per
farcire polpettoni, anatre e oche ripiene,
abbrustolito o meno serve di base per zuppe
(frantoiana, di fagioli, contadina, di
cipolle ecc), acque cotte, minestre di pane,
ribollita, e una infinità di altre ricette
tradizionali. Il pane è una spugna che si
impregna di sapori e odori: il principio
base del riuso è solo questo, oltre alla
necessità di non sprecare nulla di quanto
possa riuscire a sfamare le molte bocche
presenti in casa. A proposito di pane. I
fiorentini, per non dover pagare il sale a
Pisa, decisero a un certo punto, ma comunque
nel medioevo, di fare il pane sciapo. Sai
che conquista: se ne mangia di meno e ci
vuole più companatico. E il sale si vendica
perché se non è diffuso oculatamente tra gli
ingredienti che si mettono in bocca, ce ne
vuole sempre di più per dar sapore al bolo e
genera ipertensione.
Anche il passaggio nei pressi di San Miniato
al Tedesco, castello imperiale, in cui
imperatori e marchesi cercavano di affermare
quell'unità statale, che si andava
rapidamente sgretolando di fronte al
particolarismo e all'iniziativa economica
delle città dell'Italia centro
settentrionale, si presta bene a una
riflessione sul tartufo. Oggi il tartufo
bianco è una improba componente del lusso
più sfrenato. Nel medioevo, nonostante le
differenze di classe e di status, che non
erano inferiori alle odierne, anzi, venivano
coltivate e promosse con maggiore
ostentazione e protervia, era un prodotto
meno esclusivo e più popolare, almeno nelle
zone in cui si raccoglieva. E siccome non
doveva essere altro che un aroma
supplementare, lo ritrovo naturale nella
farcia di selvaggina alata: fagiani, gru,
germani, quaglie e folaghe, ma anche tordi,
che non dovevano mancare nell'area di
produzione, specialmente nei paduli di
Bientina e di Fucecchio e lungo l'Arno e le
molte lame d'acqua ferma create dalle piene
del fiume.
Per insaporire carni e polpette si usavano
spesso anche funghi, ma non quelli che
ancora si raccolgono e che vengono
analizzati nei mercati centrali alle sei di
mattina da esperti micologi. No, si
raccoglievano, al tempo giusto e ben
riconoscendone la specie, anche le "esche"
che erano funghi che nascono su alcune
piante e non sono com-mestibili perché molto
legnosi, anche se non velenosi. L'uso era
quello di grattugiarli nell'impasto di carne
perché molto aromatici. Sempre nei pressi
dell'area che stiamo attraversando, anche se
siamo in vai d'Era, c'è il comune di
Peccioli, dove si è riscoperta da qualche
tempo l'uva Colombaria, uva bianca
dall'acino tondo, dolcissima e profumata, da
consumare come frutto e non per la
vinificazione. Come si evince dal nome, ne
viene attribuita l'origine alle coltivazioni
dei monaci iroscoti, seguaci di san
Colombano che, dalla lontana Manda, primi
pellegrini romei, scesero in Francia a
Luxeuil, poi a San Gallo in Svizzera e
infine a Bobbio nella valle della Trebbia
all'inizio del VII secolo e da lì si
sparsero nella Liguria e nella Tuscia
occidentale. Non ci sono prove che
l'attribuzione sia vera, ma è verosimile se
si pensa che in zona sono state scoperte
tombe altomedievali di gente coi capelli
rossi e che dove compare il toponimo San
Colombano c'è sempre una viticoltura antica
e valida.
Al pellegrino conveniva rifornirsi di cibo
in Valdelsa per due ragioni: che presso i
luoghi di maggior produzione e smercio il
costo del cibo era minore e che in città, a
Siena per esempio, la maggior domanda
avrebbe potuto far alzare i prezzi. In
compenso le gabelle favorivano il pellegrino
e il viandante: a Siena portando con sé fino
a 12 caci e 30 uova non si pagava gabella.
La cipolla di Certaldo non è soltanto famosa
per la novella del Boccaccio dedicata a
frate Cipolla, perché esiste una vasta
letteratura che ne contempla i meriti:
risvegliare ogni sorta di appetiti, far
lacrimare gli amanti onde convincere le
amate, poter esser portata senza problemi
nei campi e in viaggio.
Lo zafferano era prodotto nel medioevo in
tutta l'area a sud dell'Arno, ma in
particolare nelle comunità del certaldese,
anche se poi i grandi mercanti di questo
prodotto di lusso facevano capo a San
Gimignano. Numerosi erano i modi di
adulterare un prodotto tanto costoso,
mescolandolo con le parti meno nobili del
fiore autunnale o anche aggiungendovi
listelle di carne equina seccata e tagliata
sottilmente per via del colore identico.
Anche la verdea, un vitigno che da il nome a
uno strano vinello leggero e dolce, adatto a
donne e fanciulli perché a bassa gradazione,
veniva prodotto a sud dell'Arno anche se la
zona che più ebbe fama sono le colline
immediatamente a sud di Firenze. La verdea è
stata vietata dalla Comunità Europea perché
aveva modalità anomale di produzione.
E infine il marzolino di Lucardo: il
prodotto tipico che ha (parere del Vanni) il
più antico riferimento storico in assoluto.
Nicola, vescovo di Butrinto, arcidiocesi di
Giannina in Grecia (dove probabilmente non
era mai stato), era un domenicano francese
messo dal papa francese Clemente V, il primo
dei papi avignonesi, al seguito del viaggio
italiano di Arrigo VII di Lussemburgo e, per
quest'ultimo, svolgeva, se necessario, anche
importanti legazioni. Scrisse anche una
relazione al papa probabilmente subito dopo
la morte dell'imperatore che tante speranze
aveva scatenato in Dante e nei ghibellini
italiani. Nel descrivere la sosta che
l'esercito imperiale fece a sud di Firenze
dal 3 novembre 1312 al 6 gennaio dell'anno
successivo, il vescovo scrive: "Nei dintorni
c'erano molti potenti castelli. Ne bruciò
alcuni, altri li tenne per sé, e tra questi
Lucardo, dove si fanno buoni caci...".
Tutto qui, ma
in una relazione diplomatica al papa
arrivare a parlare di formaggio credo sia il
massimo che si potrebbe pretendere per
valorizzare un prodotto e il luogo che lo
produceva. Oggi ci sono ancora dei
produttori locali, ma si perdono nella
grande massa dei pecorini di Toscana. Il
formaggio marzolino di Lucardo, era famoso e
apprezzato proprio perché a pasta soda,
senza buchi. La cultura popolare toscana ha
almeno tre modi di dire legati a questo
apprezzamento: "Cacio serrato, e pan
bucherellato" ovvero "pane alluminato
e cacio cieco" o ancora "pane con gli
occhi e cacio senza occhi; e vin che
cavi gli occhi".
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Siena
Siena
è sempre stata una città ricca, dove
lo sfoggio trova anche nel cibo
notevoli soddisfazioni. Ma la nostra
sarebbe in buona compagnia con altre
città, non solo toscane.
A
farla diventare capitale delle
stravaganze alimentari non è tanto
il Libro di cocina di Anonimo
toscano, e forse, stando a certe
espressioni linguistiche, proprio
senese, del secolo XIV, stampato per
la prima volta nel 1863, bensì
proprio il padre Dante che, in una
folgorante terzina del XXIX Canto
dell'Inferno, ricorda il senese
Niccolo (della ricca famiglia dei
Bonsignori, secondo alcuni, o dei
Salimbeni, secondo altri) "che la
costuma ricca / del garofano primo
discoperse" ovvero che usò,
sembra per primo, i chiodi di
garofano forse non tanto in cucina,
che era prassi ormai abituale
all'epoca di Dante, ma sparsi sulla
brace dove si arrostivano le carni,
con quel che costava la spezia
esotica allora; il guaio vero è dato
però dall'ultimo verso della terzina
"ne l'orto dove tal seme
s'appicca", perché quest'orto
metaforico è proprio Siena, dove si
coltivano e lussureggiano appunto le
stravaganze alimentari, e non solo.
Il
valore del cibo trova spazio anche
nello statuto comunale della città:
durante le festività di mezzo agosto
il Comune creava i suoi nuovi
cavalieri, che avevano il diritto di
recintare con uno steccato un pezzo
della piazza del Campo,
rinchiudendovisi dentro con i propri
accoliti per sette giorni. Era
quella che si chiamava "corte
bandita", e lo statuto vieta ai
cuochi di chiedere più di 40 soldi
al giorno per il servizio di cucina
destinato a dette corti. Siena, con
Firenze, vanta i più antichi libri
di cucina, ma se il fiorentino
descrive solo piatti da ricchi, il
senese non disprezza neppure la
cucina popolare.
Oltre alle spezie, testimonianza
concreta e odorosa dei commerci
internazionali a cui anche i senesi
si dedicavano, la cucina medievale
senese ama utilizzare frutta fresca
(pere, in particolare) e secca
(mandorle bianche e prugne) per le
proprie creazioni gastronomiche oggi
difficilmente accettabili al palato
moderno: dal " brodo saracenico"
alla "gratonia".
Il biancomangiare senese, sulla base
classica del riso e dei petti di
pollo lessati, prevedeva l'aggiunta
di molto zucchero bianco, lardo
fritto, latte di capra e zenzero
bianco.
Anche se non avevano né mare né
laghi nelle vicinanze, il pesce se
lo facevano venire dai laghetti
della bassa Valdichiana o dal
Trasimeno. Lasche e anguille erano
le preferite. Frutta fresca e pesci
di pescaia, poi, erano oggetto di
scorribande notturne dei
giovinastri, perché pare che il cibo
rubato fosse più saporito. Anche
ricevere in dono un canestro con
cento pere poteva esser motivo per
un letterato di stilare un carme
laudatorio, impetrante un anno di
indulgenza per ogni pera ricevuta. A
Siena poi si usa un'erba aromatica,
il dragoncello, che da altre parti
d'Italia, escluso il nord, è
pressoché ignota. È stato per
que-sto ipotizzato il legame con la
Francia, dove l'estragon è
molto usato per aromatizzare il
burro e l'aceto o anche nelle salse.
I senesi ci tengono al punto, alla
loro erba che scaccia le streghe,
che nel 2006 hanno organizzato
un'apposita kermesse, scatenando i
ristoratori della provincia.
Come Lucca, Siena deve essere
ricordata in particolar modo per i
dolci. Dove, se non in una ricca
città di mercanti e finanzieri del
papa, lo sfoggio economico si
trasferisce in cucina, e in quella
parte della cucina in cui il dolce
prevale e si fa autonomo e, quando
infine si comincia a importare lo
zucchero in grandi quantità, di
questo ingrediente fa un elemento
scatenante, onnipresente, eccessivo?
Nella nostra cena medievale tentiamo
di fare un panforte col solo miele,
un ricciarello al miele d'acacia
(che non sporca il candore
paradisiaco del prodotto) e i
cavallucci senza zucchero o sciroppo
di glucosio tra gli ingredienti.
Almeno questi ultimi potrebbero
meritare un tentativo domestico. Gli
ingredienti sono tutti medievali:
farina, miele, frutta candita, noci,
nocciole, spezie lievito e aromi.
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Val d'Arbia & Val d'Orcia
Qui, in queste che non
sembrano valli, perché non
ci si accorge dove si
dirigono i piccoli fiumi che
le traversano, dove domina
la coltura estensiva, se non
più il latifondo, dove ci si
aspetterebbe che, come si
sono conservati i manufatti
medievali, le mura, le
grange, i castelli, le
abbazie, così ci
aspetteremmo che si fosse
conservata anche la cultura
del cibo pre-America.
Ma dobbiamo rendersi conto
che sarebbe chiedere troppo
a questa gente, che ha
certamente benedetto le
patate, ma ancor di più ha
benedetto i pomodori. Quindi
non è da fare una colpa se
nelle trattorie di
Buonconvento aggiungono alla
medievale minestra di ceci
un po' di purea di pomodoro
o quelle di Castiglione d'Orcia
lo mettono nella scottiglia
e nell'acqua cotta di solo
sedano e cipolle: basterà
mettersi d'accordo prima coi
ristoratori e convincerli
che il rosso, in questo
caso, è superfluo.
La zuppa di lenticchie
invece è classica, con
sedano, aglio cipolla, pane
raffermo, olio extravergine
e formaggio pecorino
abbondante grattugiato,
oltre alle lenticchie.
La cipollata sarà non solo
medievale, ma sapientemente
semplice.
Si tratta di piatti da
focolare, costruiti per
insaporire, diversificando
con pochi ingredienti da
giorno a giorno, la solita
zuppa col pane "crogiato"
ossia tostato a blocchetti
pari a un boccone abbondante
sulle braci dello stesso
focolare. Acqua, odori,
carne salata o salsiccia e
pane tostato: le variazioni
sono una sinfonia amorosa,
andante poco mosso.
La val d'Orcia nel medioevo
certo non mostrava gli
attuali panorami vasti e
puliti che l'hanno fatta
ascrivere da parte
dell'Unesco a patrimonio
dell'umanità. Selve dovevano
essercene per ogni dove, e
quindi anche selvaggina. E
qui, dove le lunghe distanze
dagli abitati e lo scarso
controllo del territorio da
parte dei poteri signorili
lo consentivano, non doveva
essere difficile procurarsi
qualche preda di frodo. Tra
le prede, mettiamoci pure
anche qualche pellegrino
ricco, anche se non
commestibile. Siamo o non
siamo nella terra di Ghino
di Tacco?
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Sunto tratto da:
Antichi "mangiari" lungo la Via
Francigena - Fabrizio Vanni, con
saggio introduttivo di Renato
Stopani.
Casa Editrice Le
Lettere -
www.lelettere.it
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