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Bere è una delle
necessità essenziali e insopprimibili dell'uomo: si può restare
anche più giorni senza cibo, ma non privandosi completamente di
bevande. Da ciò, come sempre accade per i momenti fondamentali
della vita, la formazione, nel tempo, di quella che si potrebbe
definire la «liturgia del bere», che si esprime sia con la
scelta delle bevande sia nelle modalità di consumo, individuali
e collettive: una serie di norme, più semplici di quelle
relative al cibo, ma ugualmente osservate con attenzione e
rispetto per certi comportamenti tradizionali, spesso
convalidati dalle leggi religiose. La bevanda fondamentale,
l'unica in grado di dissetare veramente, è, da sempre, l'acqua.
È infatti
essenziale per le nostre necessità fisiologiche e, se talvolta
non viene bevuta allo stato puro, come è consigliabile, la sua
percentuale nel vino, nella birra, nella frutta eccetera, è tale
da compensare il mancato consumo diretto. Per il vino, comunque,
si può parlare di tradizioni e norme di comportamento che vanno
ben oltre il consumo a scopo alimentare o il desiderio di
annullare, per breve tempo, le sensazioni e i pensieri
sgradevoli, ricorrendo all'alcol (il «bere per dimenticare»).
Già presente nella Bibbia come elemento di contatti umani, il
vino diviene, con il cristianesimo, simbolo e transustanziazione
della divinità, che lo accoglie trionfalmente nell'Eucaristia.
Per contro, le altre due maggiori religioni, la musulmana e
l'indù, lo mettono al bando, assieme a tutte le altre bevande
contenenti alcol.
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Un po' di storia
Autorevoli studiosi sostengono che i vocaboli
woin e wain, dai quali sarebbe derivato il greco oìnos,
siano forme della stessa antichissima parola, anteriore alla
suddivisione dei popoli indoeuropei e semitici.
Non si sa però esattamente quale sia la patria d'origine della pianta
sacra a Bacco (Vitis vinifera sativa) e nemmeno si sa se discenda
dalla vite silvestre, che era selvatica e cresceva in forma selvaggia a
dismisura, con tronchi molto robusti e selve di tralci che avevano le
dimensioni di veri e propri rami. Solo in un secondo tempo — impossibile
fare il calcolo degli anni, se centinaia o millenni — la vite selvatica
fu «addomesticata». Sicuramente la vite ebbe molta importanza per le
abitudini e il ritmo lavorativo dell'uomo e sicuramente costituì un
incentivo, come altre colture agricole, per fargli abbandonare la vita
nomade, inducendolo a stabilirsi in luoghi collinari ameni per seguire
il ciclo che dura tutto l'anno prima che l'uva giunga a maturazione e
sia poi pronta ad essere trasformata prima in mosto e poi in bevanda,
secondo pratiche enologiche millenarie. Queste operazioni non hanno
subito, rispetto all'antichità, grandi trasformazioni o radicali
mutamenti.
La leggenda attribuisce l'invenzione del vino a Noè, che sarebbe anche
stato il protagonista della prima ubriacatura, suscitando le apprensioni
di Sem, Cam e Jafet, suoi figli. Pur non potendosi sostenere a fondo
questa tesi, resta a suo favore il fatto che il vino si produce ancora,
se non proprio sulle pendici del monte Ararat, almeno in quel grande
centro semitico che era allora la Transcaucasia.
Dalla Transcaucasia la vite sarebbe passata nella
Tracia settentrionale, trasmigrando poi ancora, a quanto pare per opera
dei navigatori fenici, dalla Siria alla Grecia, dalla Grecia all'Italia
e infine nella Gallia e nel centro Europa, fino ai limiti climatici di
coltivazione, dopo esservi stata portata dai legionari romani. Né una
parte determinante in questa diffusione della vite domestica può essere
negata all'Egitto, dove, nei documenti di scambi commerciali, il vino
figura ai primissimi posti. La bevanda era un simbolo di vita e di forza
e veniva prodotta in cantine che utilizzavano l'uva raccolta nei
giardini del Nilo, disseminati lungo il delta. Gli Egizi — che avevano
tra l'altro dimestichezza con la birra — erano già dei maestri in
materia.
Pratiche enologiche comuni erano la pigiatura, eseguita con i piedi,
come dimostrano numerose tavolette egizie, e le filtrazioni chi
dovevano essere accurate, conoscendo la precisione di quel popolo
nell'eseguire i lavori agricoli e artigianali.
A fermentazione conclusa, il vino veniva immesso in
giare di vari dimensioni, anche molto capaci, sia per l'incantinamento
sia per il trasporto sulle navi vinarie.
Il vino, a causa del suo prezzo elevate era una
bevanda riservata ai ricchi.
In Mesopotamia ci sono riferimenti al vino che
risalgono a circa 2500 anni prima di Cristo alcuni documenti scritti
testimoniano la presenza di vigneti intorno ai palazzi dei nobili. Il
vino più pregiato era riservato alle genti di nobile censo, mentre gli
schiavi dovevano accontentarsi di un vino più ordinario. Più o meno, le
stesse usanze le avevano Greci che, occupando un posto fondamentale
nello sviluppo della civiltà mediterranea, erano in primo piano nella
produzione vinicola dopo essersi fatti insegnare un'arte che conoscevano
poco, dal momento che erano prevalentemente pastori. Troviamo così il
vino al posto d'onore nelle opere di Omero, accanto agli elmi, alle
lance, alle spade.
Nell'Odissea il Mare Egeo viene paragonato al «vin
scuro».
In documenti scoperti a Plios e all'isola di Creta,
risalenti a quattordici secoli prima di Cristo, il vino viene ampiamente
menzionato. Veniamo così a sapere che anche allora si usavano i
bottiglioni; le coppe d'oro e d'argento venivano usate non solo dai re,
ma anche dai maggiori dignitari. Il vino veniva sempre miscelato con
l'acqua, mentre per il trasporto si adoperavano otri di cuoio. Le grandi
giare per la conservazione erano chiamate pithoi e si procedeva alla
loro solenne apertura in occasione delle maggiori feste. Molta
importanza era attribuita all'età del vino, che veniva considerato
vecchio solo dopo quattro anni. Le donne di alto censo non potevano bere
il vino e se erano scoperte subivano severe condanne; ciò non toglie che
ricorressero ad artifizi per non far scoprire la loro malefatta, che
oggi fa sorridere, ma che allora costituiva perfino un pericolo di
condanna a morte. Seguendo usanze provenienti dall'Oriente, si
aggiungevano al vino anche mirra ed altre sostanze aromatiche.
La vigna era chiamata oinàs e, pur non ricevendo eccessive cure, dava i
suoi frutti con generosità ed abbondanza. Durante i banchetti spettava
al «cerimoniere» di determinare il quantitativo di vino da bere, di
miscelarlo correttamente con l'acqua e di dare disposizioni per il
brindisi. Il «cin cin» o «cincin» allora non si usava, perché questa
tradizionale formula è stata presa a prestito piuttosto recentemente dai
Cinesi, presso i quali rappresenta un'espressione di saluto interpretata
in italiano come voce onomatopeica riproducente il suono di due
bicchieri che si urtano. Per quanto riguarda l'Italia, va ricordato che
ancor oggi si usa chiamarla Enotria o Enotria tellus, cioè terra del
vino, e questo vuol dire che il complimento era davvero meritato già a
quei tempi. Gli Enotri occupavano la parte meridionale della Penisola,
pressappoco quella che oggi corrisponde alle regioni della Basilicata e
della Calabria. E fu proprio un pioniere greco, che di nome si chiamava
Enotro, a colonizzare quelle terre, impiantandovi le prime barbatelle
che provenivano dall'Egeo. Poi, pian piano, la vite si diffuse in
Sicilia, in Puglia e in Campania, indi in Toscana e nel Lazio, fino ad
arrivare all'antica Rezia, una vasta regione che abbracciava il
Trentino-Alto Adige, la Valtellina, il Friuli, arrivando al basso Veneto
e spingendosi fino alla Valle d'Aosta. Secondo altre fonti, la vite
avrebbe cominciato ad espandersi dalla Sicilia con i colonizzatori di
Micene. Poi, con la civiltà villanoviana (mille anni prima di Cristo),
sarebbe lentamente risalita a nord, ricevendo un forte impulso dagli
Etruschi, colonizzatori dell'entroterra toscano e probabili primi
abitatori della zona del Chianti.
Un insigne studioso del vino, Giovanni Dalmasso, ha fornito
interessanti, notizie sulle origini del vino in Italia. Per quanto
riguarda la Toscana, egli formulò delle ipotesi che proverebbero
l'esistenza della vite in queste contrade prima dell'avvento dell'era
umana. Quindi non sarebbero stati i navigatori fenici a portare la
pianta, che in quelle contrade esisteva già. Ciò sarebbe provato dai
reperti di travertino affioranti nella zona di San Vivaldo dove furono
ritrovate impronte fossili della Vitis vinifera, cioè l'antenata
delle varietà coltivate attualmente che, come abbiamo già detto,
cresceva spontanea. È certo quasi impossibile svelare i misteri della
preistoria e molto incerti sono gli albori storici, però si può
tranquillamente affermare che gli Etruschi furono sicuramente gli
antenati dei vignaioli del Chianti, conosciuti in ogni parte del mondo.
Il vino «miele del cuore», come lo definisce con caratteristica ed
efficace immagine il poeta Omero, era bevuto dagli Etruschi nella
«patera», un recipiente di mescita entrato in uso ben sette secoli prima
di Cristo. Aveva la forma di una coppa un po' ovoidale, con due manici
allungati a nastro per poterla più agevolmente portare alle labbra,
standosene comodamente sul triclinio. Molto importante è il fatto che
furono gli antichi abitatori etruschi ad introdurre l'uso del vino
«pretto», cioè naturale, mentre Greci e Romani lo pasticciavano con
aggiunta non solo di acqua, ma di infusi vari di erbe, con miele ed
altre sostanze dolcificanti. Non dimentichiamo che allora non esisteva
lo zucchero e quindi si ricorreva ad assumerlo non solo con le sostanze
alcolico-zuccherine contenute nel vino, ma anche con l'aggiunta di
sostanze ricche di zuccheri, come il miele. Una terapia inconscia se
vogliamo, ma efficace, poiché l'organismo ha bisogno di una certa
quantità di zuccheri per la sua perfetta funzionalità.
Fatta salva la leggenda di Noè, si può ben dire che
il vino etrusco è stato, in realtà, uno dei più antichi del mondo. Una
delle prove più certe della familiarità del popolo etrusco con il vino è
il coperchio di un'urna volterriana in cui è scolpita la
rappresentazione di un banchetto: una mensa riccamente imbandita e da un
lato un ampio cyathus (cratere) che può essere considerato un antenato
del fiasco toscano. Durante i banchetti, come riferiscono gli studiosi
della materia, gli Etruschi avevano l'usanza di spargere il vino sul
pavimento come segno augurale e, per ingraziarsi gli dei, lo versavano
sul fuoco delle are.
Tale usanza era definita «libagione», nome rimasto
col significato di abbondante bevuta. In quanto al nome Chianti, che
venne alcuni secoli dopo, esso deriverebbe dal latino clangor,
ossia squillo di tromba o grido festoso di uccelli, cioè relativo ad una
contrada che era ricoperta di selve e molto spesso percorsa da bande in
arme. Però il primo documento che menziona esplicitamente il vino
Chianti è del 1398 e consiste in una registrazione contabile comparsa
nei libri della «Compagnia del Banco» di Francesco Datini (l'inventore
della cambiale): accanto alla partita di vino Chianti compare il
relativo prezzo in fiorini. All'epoca dei re di Roma e durante la
Repubblica, i Romani non furono estimatori del vino. Essendo di
abitudini sobrie, spartane o anche più, conoscevano poco i vini e solo
qualcuno li beveva, importandoli dalla Grecia. I pochi vini che si
producevano erano decisamente rustici rispetto ai nettari raffinati che
volevano rivaleggiare con l'ambrosia bevuta dagli dei dell'Olimpo.
Origini del fiasco toscano
Parlando di storia del Chianti, mi sembra interessante ricordare le
origini del fiasco: ancor oggi, malgrado sia in crisi, è il contenitore
più popolare, specie per quanto riguarda il vino rosso.
La prima documentazione di recipienti di vetro simili al fiasco risale
al XII secolo. Il comune di San Gimignano, famoso per le sue torri ma
anche per il vino, nel 1275 conferiva ad un artigiano di nome Cheronimo
il permesso di aprire una fornace per «l'arte del vetro». Era anche,
Cheronimo, uno di quei maestri chiamati «bicchierai» che costruivano non
solo bicchieri, ma fiaschi e bottiglie. E il fiasco era destinato a
soppiantare assai presto i contenitori di creta smaltata e di
terracotta.
Sembra che il rivestimento in paglia del fiasco sia stato inventato
nientemeno che da Leonardo da Vinci, per espressa richiesta di un gruppo
di vetrai. Il fiasco odierno è lo stesso che si vede accanto al Bacco
fanciullo di Guido Reni, nel bellissimo dipinto degli Uffizi di Firenze.
Per evitare le «furbizie» sulle dimensioni e capacità dei fiaschi, che
avevano il difetto di essere presentati dai mercanti sempre più piccoli
del dovuto, fu emanato a Firenze un decreto che stabiliva la capacità
del fiasco in «mezzo quarto», ossia il corrispondente di litri 2,280.
Successivamente, le vetrerie ricevettero la disposizione di stampare il
bollo, cioè lo stemma del giglio di Firenze, sul collo a garanzia della
misura esatta.
Fu con un fiaschetto di Chianti, offerto dal dottor
Winger, che il 2 dicembre 1942 si brindò alla scoperta della pila
atomica. L'umile contenitore ha assunto l'importanza di un oggetto
storico; adesso è conservato al museo dell'energia nucleare di New York.
L'inizio dell'epoca atomica è stato siglato dall'"umor che dalla vite
cola", come dice Dante Alighieri.
Tra le firme degli scienziati presenti, apposte
sull'etichetta di quel fiaschetto, c'è anche quella dell'italiano Enrico
Fermi.
E' un peccato che per difficoltà di reperire la
manodopera e per i costi elevati dell'operazione di impagliatura (fatta
con la "sala", un'erba palustre) il fiasco tenda ad essere sostituito da
altri recipienti, come le pulcinelle o come le chiantigiane, che sono
pur sempre dei bottiglioni.
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