Sistema dei Poderi nella Fattoria di Bettolle - Parte 1 ͣ | Parte 2 ͣ |
Così il Repetti ci racconta, nel suo Dizionario Geografico Fisico e Storico della Toscana, Bettolle:
Villaggio in Val di Chiana nella Comunità Giurisdizione e 4 miglia
toscane a levante di Asinalunga, Diocesi di Pienza, già di Arezzo, al
cui Compartimento appartiene.
Continuando il
nostro viaggio, [...] presto giunsemo a Bettolle che non è distante da
Asinalunga, se non quattro miglia. Bettolle era in origine un villaggio
con una Fattoria della Religione Equestre di S. Stefano, ampia ed
importantissima tenuta sì per la rendita, che per le fabbriche, le
colmate, le arginature, ed incanalamenti delle acque. Or ciò, che fu
Villaggio è divenuto Castello, e le fabbriche e la popolazione intorno
ad un sì ricco suolo van sempre estendendosi. Intanto nel gruppo di
case, che or formano questo Castello, vivono circa 500 anime.
Popolarissima poi è la campagna piena di case rurali tutte comode, e ben
costruite, distinguendosi sopra le altre quelle che appartengono alla
Religione di S. Stefano, nella fabbrica delle quali sono stati spesi
almeno 3.000 scudi per ciascuna ond'è ch'esse pajono anzi ville, che
case di contadini.
E, più o meno negli stessi anni, Giuseppe Giuli, professore di storia naturale all'Università di Siena, secondo il quale la Valdichiana:
«bella e classica provincia della Toscana, [... è la prima classe] per l'abbondanza dei prodotti, come per la squisitezza di essi»
In Valdichiana, il
processo di colonizzazione e urbanizzazione delle campagne, che ha visto
l'evoluzione del paesaggio agrario con interventi volti a conquistare
terre acquitrinose a coltura, è stato all'avanguardia rispetto ad altre
aree geograficamente simili. L'intervento degli uomini ha forzato
l'ambiente ed ha determinato il modo di vivere di una comunità, che ha
così costituito un modello di storia della bonifica, con le conseguenti
trasformazioni agrarie via via definite e la contestuale progressiva
evoluzione della società rurale. "Se oltre i terreni vi è anche la casa per abitarvi, l'aja per trebbiare il grano, e per conservarci la paglia; il forno per cuocervi il pane; le stalle per custodirvi il bestiame; il pollaio e qualche volta il colombajo; a questa riunione d'officine agrarie si dà il nome di podere ed all'unione di molti poderi quello di fattoria".
Le singole economie poderali, per quanto possano apparire indipendenti, "si muovono entro linee di un'unica amministrazione". La direzione tecnica è unica. Uniche sono anche le macchine che passano da un podere all'altro e, con loro, anche i contadini perché per le produzioni più impegnative, come la vendemmia, la mietitura, la trebbiatura, ecc. vige il sistema dello scambio d'opera: si lavora tutti insieme in un podere, e poi si passa in un altro. A carico del podere ospitante: solo il pranzo per tutti. Le vendite e gli acquisti vengono fatti nell'interesse comune. Alcune produzioni (come per esempio il vino, l'olio, il latte, la seta) sono frutto del lavoro comune e vendute allo stato finito dalla fattoria "Con ciò la piccola economia poderale aggiunge ai suoi specifici, i vantaggi propri della grande azienda".
I documenti che testimoniano l'attenzione a una più razionale gestione della fattoria, dopo la fine della stagione degli affitti, sono molti. Il Fossombroni, per esempio, nella visita del 1783 effettuata insieme all'amministratore generale Benedetto Tavanti, sottolinea la necessità di molti lavori migliorativi: "[...] aumentare le abitazioni per comodo dei lavoratori e di stalle per accrescere il bestiame e per formare nuove case da sostituirsi in luogo di quelle che per la loro antichità o difetto di costruzione non possono tenersi più in piedi ed altre per accrescere nuovi poderi nei terreni acquistati per mezzo delle colmate..." L'importanza e la necessità di poter disporre per l'azienda di un maggior numero di case coloniche, poiché solo una più fitta densità abitativa consentiva una più razionale coltura dei terreni, è posta in evidenza nelle relazioni dello stesso Fossombroni. Gli spostamenti per lavorare campi lontani dalle abitazioni, non erano convenienti dal punto di vista economico e distraevano i lavoratori da un impegno assiduo al podere, ma si osservava anche che famiglie troppo numerose non erano funzionali ad un adeguato controllo sociale, potevano per esempio "essere causa... di poca subordinazione al capo di casa". In effetti al tempo le famiglie erano molto numerose. Negli anni a cavallo dell'800 la media nella fattoria di Bettolle era di 16,5 persone per podere. I poderi Foennella e Mulinaccio ne ospitavano 23, ma nei decenni precedenti in alcuni poderi abitavano 30 individui, per non dire dei 40 di alcuni poderi della fattoria di Creti: "genti imparentate alla lontana" come si usava dire; poco più che conoscenti.
L'obiettivo riformista di Pietro Leopoldo e seguito dall'auditore Giovanni Neri e dal Fossombroni, era quello di destinare un'abitazione per famiglia. Giuseppe Giuli - professore di storia naturale all'Università di Siena - invece, quando scrive della famiglia mezzadrile di quella Valdichiana primeggiante descritta all'inizio della sua opera, sostiene, dopo aver evidenziato che "ogni podere è coltivato generalmente da una famiglia della medesima agnazione²" che ciò è necessario per l'unione "e la reciproca fiducia tanto in quello dirige, che in quelli che sono diretti, cose più facili ad ottenersi tra persone legate insieme dai vincoli di sangue, che dal solo interesse». È vero che, da una parte - e molto spesso - i rapporti erano tutt'altro semplici, tanto che l'auditore Giovanni Neri, nello svolgere il suo lavoro, mette in evidenza il problema di gestione, di quella che oggi definiremmo "risorsa umana", in una famiglia troppo numerosa. Ma dall'altra occorre anche dire che, pur essendo numerose, non sempre le famiglie erano in grado di garantire un'intensa ed adeguata coltivazione di poderi così estesi e fertili, come quelli costituitisi a seguito dei processi di bonifica, che avevano «sottratto alle rane ai pesci» un nuovo territorio «cambiato ad ubertoso limo», come scrive: Del Corto³ nella sua fondamentale opera sulla Valdichiana, riprendendo il concetto del «permutato albergo delle rane e dei pesci in verdeggianti campi» espresso proprio da Giovanni Neri. Il rapporto familiare, oltre ad essere precario sotto l'aspetto sociale, lo era anche sotto quello economico-produttivo.
Un equilibrio la cui importanza non era sottovalutata dagli amministratori e dagli agenti delle fattorie granducali, come si rileva dal continuo processo di aggiustamento e adeguamento alle nuove esigenze di produzione, attraverso spostamenti delle famiglie o di porzioni di aggregazione, o disaggregazione, di appezzamenti marginali o di parti del podere. La proprietà si era riservata il diritto, inserendolo nelle clausole del contratto mezzadrile, di decidere sull'unità della famiglia. In una memoria dell'Accademia dei Georgofili del 1784 è evidenziata come la produzione della maggior parte dei poderi della Toscana non forniva "alimento bastante per tutto l'anno alla famiglia colonica". Nelle campagne non sempre il pane veniva fatto con la farina di grano, spesso si usava il granturco, le fave o i ceci. Ci si nutriva anche con tuberi, verdura, frutta e, raramente, con carne di castrone che proveniva dalle Puglie e che costava, completa di osso, 5 soldi la libbra. La carne bovina veniva macellata molto raramente: era necessario il permesso degli Ufficiali di Grascia⁴ e comunque la bestia doveva essere ammalata oppure "vacca vecchia e sterile et non più atta a figliare". Nei periodi di carestia, molto frequenti, si mangiava ancora meno. In campagna per i contadini poveri le cose peggioravano perché, consumate le scorte per la carestia, erano costretti a comprare le sementi che dovevano essere restituite l'anno seguente, non a pari quantità, ma al valore del momento del prestito. Non era difficile, quindi, che si indebitassero. Per questo, a volte, venivano confiscati loro gli attrezzi agricoli: era uno dei giusti motivi che consentiva al padrone di dare la disdetta al capoccia. Ma c'era di peggio: siccome l'indebitamento "eccessivo" (di norma circa un settimo degli introiti complessivi del podere) era un altro giusto motivo per la disdetta, il rischio di essere cacciati dal podere era sempre presente. I vecchi usano ancora dire che "la notte del 30 novembre i capoccia non dormono", perché il 30 novembre era il termine entro il quale i padroni potevano dare la disdetta.
Altro dato negativo è la resa piuttosto bassa che al tempo si otteneva nella produzione del grano.
In Valdichiana, a differenza della media toscana
che era pari a circa 4:1 (per ogni staio seminato se ne raccoglievano 4)
la resa era doppia e in annate
particolarmente favorevoli, si raggiungevano anche i 9:1 che
permettevano di sopperire anche alle carenze delle altre zone.
Migliorare le rese e, quindi, le condizioni di vita in una zona come la Valdichiana, voleva dire attuare contemporaneamente una vasta opera di bonifica, una serie di provvedimenti di ordine infrastrutturale e scelte di produzione per consentire al contadino di mangiare con regolarità: perché mangiava, in larga parte, quello che produceva. La politica lorenese per risanare l'economia toscana aveva puntato fin dall'inizio al rinnovamento dell'agricoltura prestando attenzione anche ai contadini, al loro lavoro e alle loro case. riforme mosse "in primis dalla disaffezione dei contadini verso terre non loro e con pochissime speranze di divenirlo". A questo proposito furono stabiliti criteri base di costruzione e incentivate le ristrutturazioni e le nuove costruzioni. Ma l'attuazione del programma fu frenata dall'opposizione della maggior parte dei proprietari terrieri. E per questo motivo che in Valdichiana, dove operava direttamente lo Stato, c'è la più grande concentrazione di case coloniche risalenti a quell'epoca, non a caso, conosciute come Case Leopoldine. Ciò non vuol dire che le opposizioni al progetto fossero solo da parte del privato. Erano contrari anche moltissimi personaggi di alto livello. Matteo Tolomei Biffi, per esempio, alto burocrate dello Stato, sosteneva che una casa costruita con il disegno di un architetto, oltre a costare di più sarebbe stata "causa di mollezza nel rustico abitatore, col mettere per esempio i vetri alle finestre". Questa posizione di poco riguardo nei confronti dei contadini, era seria e piuttosto diffusa.
Nel "Trattato architettonico" di Ferdinando Morozzi, una sorta di manuale per la costruzione delle case dei contadini, poco più di una pagina è dedicata alle stanze del contadino. Dopo 19 capitoli riguardanti le diverse parti della casa, dal pozzo alla porcilaia (il 20° riguarda le coperture per i carri e la concimaia, o letamaio), il 21° è dedicato alla "cucina, o sala del contadino", il 22° alle camere e il 23° "al granaio del contadino e sua dispensa". Il 24° ed ultimo capitolo è dedicato alla "colombaia"; come dire: il contadino viene prima dei piccioni, ma dopo la concimaia.
Nel dettagliare le cose da
fare nella costruzione della "cucina che serve ancora di sala nelle
case dai contadini volgarmente detta la casa", si raccomanda di
murare attorno dei legni "o cavicchi", nei quali i contadini
attaccano un po' di tutto, perché "se mancanti ve li cacciano loro in
qualche foro, a forza di colpi disertano le mura".
A ribadire questa sorta di
mania che il "villano" ha rispetto a chiodi e uncini, si
raccomanda che "tutte le porte de' contadini, sì d'usci che di
finestre, vanno Ed infine le istruzioni per la progettazione delle camere, trascritte per esteso: "La principal cura è quella di non dare a'contadini, una camera per cischeduno, ma sempre procurare, che siano due letti per camera a motivo dell'emulazione nel levarsi la notte a rivedere i bestiami, e per essere solleciti la mattina al lavoro e perciò
Ben propinque alle stalle e ben
ristrette
La camera poi del
capo di famiglia deve essere quella, ove possa vedere, o sentire, se i
sottoposti sono solleciti alle faccende per poterli correggere in caso
di mancanza. Circa la posizione delle medesime, è sempre migliore quella
che non è dominata dal settentrione. Le finestre è vantaggioso che siano
piuttosto piccole che grandi, a motivo de' venti a cui sono sottoposte
le case de' contadini, ed in esse camere bisogna ricordarsi di murarvi
de' cavicchi per attaccarvi le umili loro vesti"
A proposito della costruzione delle scale, per esempio, la regola è quella di "farle fuori casa" e non "dentro a qualche stanza, come sono le scale di città, ed alcune case di ville". Il motivo è: "perché sono continuamente scese, e salite dalla famiglia del podere...". E, l'altezza degli scaglioni non devono essere "né troppo alti, né troppo bassi...", ma "proporzionati ai contadini". Il trattato, in certi momenti, presenta delle piccole attenzioni come, per esempio, quella del tipo di scala da progettare: "se si può scansare di farla tutta ad una branca è bene per causa di non vedere quell'orrore del precipizio continuato...". Non è chiaro se ci si vuol riferire ad un problema estetico o di vertigini, ma non ha importanza perché c'è di più nel seguito: "se qualcuno per disgrazia cadesse, abbia nei riposi, il luogo da riaversi, o fermarsi". Gigi Salvagnini nel suo studio sui Resedi rurali in Toscana, precisa che in tale contesto più che di "casa", sia corretto parlare di dimora rurale. Egli scrive: "il sostantivo casa è inesatto, non potendo comprendere nella sua definizione etimologica la parte di essa destinata all'attività lavorativa ed al ricovero delle bestie" - e, non a caso, i contadini per casa intendono la cucina -. Meglio dunque dimora rurale che non è un edificio o una serie di edifici, ma piuttosto un complesso articolato di spazi organizzati, attrezzature e ambienti, nel quale la famiglia rurale concentra le proprie funzioni abitative e parte delle attività lavorative del podere.
Sovente l'acqua, nei proverbi dei contadini, è unita al fuoco: "Acqua e fuoco son buoni servitori ma pessimi padroni". Nelle immense cucine troneggiava il camino (focolare). Dove, racconta il Morozzi, vengono messi "ceppi spietati, che durano ad ardere fino in sei, e otto giorni in continuo".
Della cucina, o sala del Contadino
La cucina che serve ancora di Sala nelle Case da Contadini volgarmente detta la Casa, non s'usa più come era il costume degli antichi, che così davano regola "in Chorte Culina, quam calidissimo loco designetur" cioè, che sia posta la Cucina nel Cortile ma al di d'oggi si fa salita la Scala e questa va assai grande, e fuggir si deve quando si può, che le finestre siano esposte al Tramonto, ed abbia un gran Focolare, ove possano stare in cerchio, 14 o 16 persone; sia il Cammino di Cappa grande per causa che usano gran fuochi, mettendo alle volte su di esso ceppi spietati, che durano ad ardere fino in sei, e otto giorni di continuo, e perciò conviene, che detta stanza sia retta dalla volta, e mattonata bene, ma è meglio però lastricarla se vi è il comodo delle pietre, della quale stanza così il Poeta.
Bisogna, ancora, che sia ben luminosa, ed abbia un ampio Acquajo, perchè molti sono i capi che lo fanno usare; sia la detta stanza sfogata cioè alta, e procurisi, che il sostegno del tetto siano travi forti, e meglio sempre se sono le travi armate a cavalletti, perchè fra trave, e trave vi mettono di pali attaccano le spighe de' Grani siciliani per asciuttarsi, vi accomodano le Zucche Vernine, gli Agli, le Cipolle, il Finocchio, e simili cose.
Altro elemento di grande importanza è il "forno". In Valdichiana il forno è da sempre, nelle case rurali, collocato fuori dall'abitazione, addossato a essa - sul fianco o sul retro - nel sottoscala o in un annesso separato dalla casa, non di rado in comune. L'uso del forno era completamente demandato alle donne di casa, anzi alla massaia che conosceva e tramandava la maestria necessaria per portarlo alla giusta temperatura per cuocere il pane.
Un altro spazio di stretta pertinenza della massaia e del quale aveva una gestione completamente autonoma, era il pollaio. Con quello che la massaia ricavava dalla vendita di uova, polli, galline ecc.. provvedeva alle piccole spese per la famiglia, soprattutto biancheria e stoffe che poi cuciva alla sera, "a veglia⁶", accanto al focolare. E poi c'era "l'aia", che aveva un uso multi funzionale. Il Morozzi spiega che l'aia davanti casa serviva "non solo per le battiture, ma per i pagliai, il rigiro de' carri, le erbe per segati per le bestie, le potature de' chioppi, viti e cannai, seccumi da forno, cioè fusti dei migli, delle saggine, canepi, lini, ecc.". Parte integrante dell'aia era la "capanna" o "riparata" per "mettere al coperto i carri, le fascine cavate dalle potature, i pali delle viti, per soppassire ed asciugare le frutte...".
Per riparare, quindi, dalle piogge improvvise le cose più diverse, dai prodotti nobili, come grani ed altri cereali, a quelli un po' meno nobili, ma comunque importanti, come "i sughi delle stalle" (il letame), che se fosse stato dilavato dall'acqua avrebbe perso buona parte del suo potere fertilizzante. E poi il pagliaio, il principe dell'aia, simbolo del podere toscano. Durante il periodo della trebbiatura i contadini dormivano nell'aia per vegliare sul grano. La conferma si trova nel Registro di Fattoria di Bettolle del luglio 1864 con una voce di spesa relativa a questa pratica: "... per valuta di n. 59. opere pagate a contanti per nottate fatte a badare al grano e allo strame. 33,04"
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Foto di inizio pagina: Podere Portovecchio |
¹ Manoscritto originale nella collezione del Marchese della Stufa (descrizione di 13 proprieta' con disegni acquerellati di tutte le case e terreni). . Con 15 tavole a colori raffiguranti la pianta del corso delle acque della Chiana, di Montecchio, Creti, Badia, Bettolle, Foiano, Pozzo, Font'a Ronco, Testo in italiano, inglese, francese. |
² Agnazione: In diritto romano, legame di parentela da parte di maschi, cioè tra i discendenti dello stesso padre, e tenuto conto della sola linea maschile. |
³ Giovan Battista Del Corto - Storia della Valdichiana |
⁴ Ufficiale di Grascia: cui era affidata dagli statuti medievali la sovrintendenza sui rifornimenti, con l’incarico anche di vigilare sui mercati, sui prezzi al minuto, sui pesi e misure, ecc. |
⁵ Si chiamava anche moggio una misura agraria usata in varie provincie italiane, equivalente per lo più a circa 7 ettari. |
⁶ A veglia: un tempo, nelle campagne, durante le sere invernali, conversando e raccontandosi storie davanti al camino. |
Estratto da: Quaderni Sinalunghesi - la Real Fattoria di Bettolle - a cura della Biblioteca Comunale di Sinalunga - anno XII n.1 |