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Attività venatoria

 

Provincia di Siena

Piano Faunistico Venatorio Provinciale 2001-2005

Sintesi della presentazione del Piano Faunistico Provinciale 2001-2005

Assessore all'Agricoltura Caccia e Pesca, Aree Protette - Claudio Galletti.

Il Dirigente del Servizio "Risorse Faunistiche, Vigilanza, Riserve Naturali - Giampiero Sammuri

 

 

 

Il Piano elaborato dall'Amministrazione Provinciale di Siena, Servizio Risorse Faunistiche, basa la sua impostazione sulle politiche di programmazione e gestione, e si pone gli obiettivi di conseguire sul territorio provinciale un reale riequilibrio faunistico, la tutela del reddito agricolo, la crescita di una attività venatoria programmata pensando e perseguendo un prelievo sempre più sostenibile.

-Nel piano si riconferma con convinzione la scelta fatta, alcuni anni or sono, della costituzione degli ATC (Ambiti Territoriali di Caccia) come strumenti di confronto e di gestione delle politiche venatorie.

-La volontà della Amministrazione Provinciale è quella di accentuare la funzione di programmazione, indirizzo e controllo, e di assegnare agli ATC funzioni di gestione e di esecuzione.

-Il piano sottolinea e persegue l'obiettivo di mantenere e rafforzare la collaborazione fra le Istituzioni e le componenti sociali preposte alla gestione faunistica sul territorio.

-In questi anni ha fatto passi avanti notevoli il dialogo e la comprensione e la collaborazione fattiva tra i cacciatori e gli agricoltori, tra mondo venatorio e associazioni ambientaliste

-Il piano si pone l'obiettivo di un più proficuo rapporto e fattiva collaborazione tra le varie componenti protagoniste della gestione.

-Un cacciatore protagonista, legato al territorio, con connotazioni sempre più attente all'ambiente e al prelievo è quel soggetto che contribuisce a far avanzare politiche di concertazione tese ad elevare la qualità della gestione.

-Il Piano Faunistico ha validità per cinque anni. Prevede una progettualità di elevato spessore verso le specie cacciabili e verso gli istituti faunistici pubblici e privati. Inquadra giustamente la fauna selvatica, la sua conservazione e la sua riproduzione allo stato naturale, come uno degli elementi che contraddistinguono la qualità più complessiva di un intero territorio.

-Il percorso individuato, le progettualità previste, le politiche di gestione che vengono indicate, sono tese a garantire le produzioni agricole, la conservazione e la riproduzione della fauna selvatica, consentendo una attività venatoria soddisfacente ed un prelievo attento al mantenimento delle specie.

 

 

 

 

I tesserini venatori

 

 

La flessione degli anni '90

L'andamento del numero di tesserini venatori rilasciati dai Comuni della Provincia di Siena tra il 1988 ed il 1999 dimostra come il numero dei cacciatori sia in costante diminuzione. Nel periodo preso in considerazione la diminuzione media annua del numero di tesserini venatori è stata di 623 unità, pari ad una riduzione su base annua del 3,9 %. La diminuzione ha interessato indistintamente tutti i comuni della provincia di Siena, sebbene i Comuni della parte settentrionale della provincia(A.T.C. 17) abbiano fatto registrare una flessione leggermente inferiore (-32,4%) rispetto a quella registrata tanto nell'area centrale (A.T.C. 18) (-38,4%), quanto in quella meridionale (A.T.C. 19) (-36,4%)
Tra il 1988 ed il 1998 la presenza dei cacciatori nel complesso della popolazione residente è andata diminuendo, passando dall'8,3% al 5,5%. L'area della provincia con maggiore presenza di cacciatori, tanto in numero assoluto quanto in percentuale, è rimasta tuttavia quella corrispondente ai comuni costituenti l'A.T.C. 17 (6,5%), mentre i comuni compresi negli A.T.C. 18 e 19, pur presentando un'identica percentuale di cacciatori tra la popolazione residente (5,0%), differisco tra loro in numero assoluto, essendo l'A.T.C. 19 comunque dotato di minor numero di cacciatori residenti.

I nuovi cacciatori: un dato stabile

Questa riduzione del numero di cacciatori e della loro incidenza nel complesso della popolazione, non deve tuttavia indurre a conclusioni affrettate. In realtà andando a vedere l'andamento del numero di nuove licenze di caccia rilasciate, sempre in provincia di Siena tra il 1978 ed il 1998, appare evidente come la diminuzione del numero dei nuovi cacciatori abbia coinciso, di fatto, con l'entrata in vigore della legge n. 968 del 1978, recepita dalla Regione Toscana con la L.R. n. 17 del 1980. Vale a dire con il cambiamento di status della selvaggina da semplice cosa priva di proprietario a "proprietà indisponibile dello Stato". Dal 1981 in poi, infatti, il numero annuo dei nuovi cacciatori si è mantenuto sostanzialmente costante.

I possibili motivi del declino

In una pubblicazione del 1967 curata dal Comitato Provinciale della Caccia, il numero dei cacciatori residenti in provincia di Siena era valutato (approssimativamente in quanto non esistevano dati ufficiali) in circa 20-22.000 cacciatori. Questo numero era desunto dai 10.673 cacciatori iscritti alla Federazioni Italiana della Caccia nel 1965; dagli 11.473 del 1966; dai 15.572 del 1967; dai 16.180 del 1968; e dai 15.874 del 1969. Ai quali era valutato dover essere aggiunto circa un migliaio di cacciatori iscritti all'Arci-Caccia, nata nel 1969, e qualche centinaio di cacciatori iscritti alla Libera Caccia ed all'Enal-Caccia, più i cacciatori non iscritti a nessuna associazione.

Nel 1980, secondo una pubblicazione dell'Amministrazione Provinciale, i cacciatori residenti in provincia di Siena erano 25.695. Nel 1988, secondo un'altra pubblicazione della stessa Amministrazione Provinciale, i cacciatori residenti in provincia di Siena erano 20.952.
La riduzione del numero dei cacciatori residenti in provincia di Siena negli anni '80 e '90 può dunque essere interpretata come una riduzione successiva ad un periodo, quello degli anni '60 e '70, di grande crescita.
L'aumento del numero dei cacciatori concise, di fatto, con il miglioramento delle condizioni socioeconomiche di larghi strati della popolazione e con una certa abbondanza di selvaggina. La successiva riduzione del numero dei cacciatori appare essere provocata in buona parte de un minore interesse da parte delle giovani generazioni verso quest'attività.
 

 



 

Gli iscritti agli A.T.C

 

 

Con l'istituzione, nel 1996, degli Ambiti Territoriali di Caccia viene ad essere regolato l'afflusso dei cacciatori residenti nella altre province della Toscana e nelle altre Regioni d'Italia. Nella ultime quattro stagioni venatorie il numero medio di cacciatori iscritti ai tre A.T.C. è stato pari a 25.807 unità, il 54% dei quali con residenza anagrafica in provincia di Siena.

I cacciatori iscritti ai tre A.T.C. a titolo principale (1° A.T.C.) hanno rappresentato nelle ultime quattro stagioni venatorie, in media il 67,9% del totale degli iscritti.

La minore presenza percentuale dei cacciatori iscritti a titolo secondario (2° A.T.C.) è stata registrata nell'A.T.C. n. 19 (25,5%), mentre la maggiore è stata registrata nell'A.T.C. n. 18 (37,1%).

I cacciatori provenienti da altre Regioni hanno rappresentato in media, nelle ultime quattro stagioni venatorie, il 4,9% degli iscritti all'A.T.C. n. 17, il 7,0% degli iscritti all'A.T.C. n. 18 ed il 12,2% degli iscritti all'A.T.C. n. 19.

 

 



 

La piccola selvaggina

 

 

Analisi dello status della piccola selvaggina

 

Il processo storico di rarefazione della piccola selvaggina stanziale in provincia di Siena

 

Dal momento che i censimenti di lepri e fagiani sono iniziati solamente nel 1987, precedentemente a tale data non sono disponibili dati sulla consistenza delle diverse specie, sebbene il declino della lepre fosse del tutto evidente (Nazzoni della Stella, 1986d).

Tuttavia, tramite un accurato esame del materiale presente nell'archivio dell'ex Comitato Provinciale della Caccia, è stato possibile recuperare i dati relativi alle catture di selvaggina effettuate nelle Zone di Ripopolamento e Cattura a partire del 1961. Il recupero inoltre dei dati relativi alle dimensioni delle stesse Zone di Ripopolamento e Cattura ha consentito di calcolare anche la densità di cattura, vale a dire la produttività di questi Istituti.

 

Il declino storico della Lepre e del Fagiano

 

Per quanto concerne le catture di Lepre, appare chiaro come il numero di soggetti catturato all'interno delle Zone di Ripopolamento e Cattura sia andato aumentando fino a circa la metà degli anni '70 e come sia poi andato declinando in modo rovinoso nell'ultimo quinquennio dello stesso decennio. A partire dalla metà degli anni '80 il catturato di lepri è andato tuttavia gradatamente aumentando, fino ad arrivare nel 2000 ad un numero di capi catturati (995) confrontabile con quello della prima metà degli anni '60. Tale recupero è stato però reso possibile dall'aumento del numero delle Zone di Ripopolamento e Cattura. Queste ultime, infatti, sono passate dalle circa 15-20 del ventennio 1960-1980 alle 40-60 del ventennio 1980-2000. Così se andiamo ad analizzare la densità di Lepri catturate ci possiamo rendere conto di quanto, al di là del numero di capi annualmente catturato, sia stato drammatico il declino della Lepre.

Confrontando il dato del 1970, anno in cui per ogni 100 ettari di superficie vincolata a Z.R.C. furono catturate ben 12,3 lepri, con il dato del 2000 (anno nel quale, dopo circa un ventennio, si è superata per la prima volta la densità di 2,0 lepri catturate per 100 ettari), abbiamo un'indicazione abbastanza precisa di quanto sia diminuita la produttività del territorio nei confronti di questo selvatico negli ultimi 40 anni del XX secolo (-83%). Ovviamente il declino della lepre ha interessato oltre agli istituti pubblici anche quelli privati.

 

Per quanto riguarda la catture di Fagiano, vale la pena di notare come i 6.714 fagiani catturati nel 2000, pur rappresentando (per quanto è dato di sapere) il numero massimo mai catturato nella Z.R.C. della provincia di Siena, dal punto di vista della densità di cattura, equivalgono, tuttavia, solo a 14,4 capi per 100 ha. In altre parole, anche nel caso del Fagiano, mentre le possibilità di ripopolamento, in virtù dell'aumento delle Zone di Ripopolamento e Cattura, sono rimaste sostanzialmente simili, la produttività del territorio è declinata in modo drammatico, sia pure in misura leggermente inferiore rispetto a quella della lepre.

 

L'estinzione della Starna e della Pernice rossa

 

Se il declino della Lepre e del Fagiano è stato drammatico, quello della Starna ha raggiunto, come noto, il triste traguardo dell'estinzione (Potts, 1986). Nel giro di 20 anni, tra il 1961 ed il 1980, vennero a cessare le catture di starne all'interno delle Zone di Ripopolamento e Cattura (Mazzoni della Stella, 1986c). A proposito di Starna occorre, tuttavia, sottolineare come la densità media di cattura non sia mai stata particolarmente elevata. Senza contare che anche negli anni '60 e '70 le starne venivano sostanzialmente catturate in solo due Zone di Ripopolamento e cattura: Strozzavolpe (Poggibonsi) ed Uopini (Monteriggioni). Il declino della Starna all'interno delle ex Riserve di Caccia appare essere stato addirittura più repentino. Nella ex Riserva di caccia di "Rencine" (Castellina in Chianti), ad esempio, i prelievi di starne cessarono nel 1971. In particolare l'analisi statistica dei carnieri i starne della ex Riserva di Rencine ha dimostrato come la popolazione di questo selvatico sia rimasta stabile negli anni '30 e '40; abbia iniziato a declinare in modo significativo solo a partire dagli anni '50, pur rimanendo la densità di abbattimento elevata fino alla fine degli anni '60 (Neriggi, 1999a).

Le ultime presenze di starne in provincia di Siena sono state registrate all'interno della Zona di Ripopolamento e Cattura "Val d'Elsa Chianti" (Poggibonsi) nella primavera del 1991 (Mazzoni della Stella & Burrini, 1993, 1995).

 

Per quanto concerne la Pernice rossa, la cui presenza nella porzione nord-occidentale della provincia (confine con la provincia di Pisa) è ampiamente documentata (Mazzoni della Stella & Burrini, 1955b; Meriggi 1999b), il processo di estinzione si consumò nel periodo antecedente la prima guerra mondiale e si concluse intorno agli anni '60.

 

 



 

Le trasformazioni dell'ecosistema agricolo

 

 

Le cause del declino della piccola selvaggina risiedono nelle profonde trasformazioni ambientali provocate, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, dalla crescente intensificazione dell'agricoltura (Hudson & Rands, 1988;Potts, 1996). L'agroecosistema, vale dire l'ambiente forgiato dal lavoro millenario dell'uomo agricoltore, in seguito alla meccanizzazione, alla intensificazione, alla specializzazione delle operazioni colturali ed al crescente impiego dei prodotti chimici, è andato incontro ad un processo di marcata trasformazione. Tale processo, nel suo complesso, ha comportato anche in provincia di Siena, vale dire in territori considerati tra i meglio conservati dell'intera penisola italiana, una drammatica riduzione della diversità ambientale. Questo, a sua volta, ha indotto un drastico peggioramento delle possibilità di vita e di riproduzione di tutte le specie animali strettamente legate all'agroecosistema e tra queste, in particolare, quelle che per le loro caratteristiche venatorie sono comunemente definite come piccola selvaggina stanziale.

 

L'archivio storico del Comitato Provinciale della Caccia

 

Le trasformazioni ambientali, pur avendo giocato un ruolo determinante, non possono tuttavia essere considerate gli unici fattori ad aver giocato un ruolo negativo nel processo di rarefazione della piccola selvaggina stanziale. Occorre, infatti, tenere conto anche degli errori verificatisi nella gestione faunistica e venatoria di questa specie.

Il recente riordino dell'archivio del Servizio Risorse Faunistiche ha consentito l'esame della documentazione lasciata dall'ex Comitato Provinciale della Caccia e quindi il recupero di importanti notizie circa la gestione faunistica e venatoria attuata nel periodo compre tra il 1949 ed il 1984.

 

La data di nascita delle Zone di Ripopolamento e Cattura

 

Il problema di salvaguardare una parte delle popolazioni di piccola selvaggina dall'attività venatoria fu affrontato, con grande sensibilità e lungimiranza, dal Comitato Provinciale della Caccia fin dal suo insediamento (1949) con la costituzione di alcune aree protette: le Zone di Ripopolamento e Cattura. Tale misura consentì per molti anni un naturale ripopolamento dei territori aperti all'attività venatoria, il cosiddetto territorio libero, con soggetti selvatici ed autoctoni. La costituzione delle Zone di Ripopolamento e Cattura rappresentò dunque, sotto il profilo della conservazione faunistica, un grande merito del mondo venatorio senese negli anni '50.

 

I "rinsanguamenti"

 

Purtroppo nei successivi anni '60 e '70, nel tentativo di opporsi alla rarefazione della piccola selvaggina, fu fatto ricorso alla pratica del cosiddetto "rinsanguamento", basata sull'immissione ogni anno di alcune centinaia di lepri di importazione, prevalentemente provenienti dalle ex Jugoslavia. Queste ultime furono immesse tanto nel territorio libero quanto nelle stesse Zone di Ripopolamento e Cattura. Sebbene il materiale di archivio rinvenuto non sia purtroppo completo, le immissioni di lepri provenienti dai paesi dell'Europa continentale sembra che abbiano interessato l'arco di tempo compreso tra l'inizio e la fine degli anni '60.

 

Nello stesso periodo anche le Riserve di Caccia, in parte per scelta autonoma ed in parte per soddisfare l'obbligo imposto loro dal Comitato Provinciale della Caccia di immettere 1 lepre ogni 20 ettari di terreno in concessione, provvidero a a compiere identici errori. Con queste immissioni andò perduta per sempre l'integrità genetica di quelle popolazioni originarie che l'evoluzione naturale aveva reso perfettamente idonee al clima ed all'ambiente che le ospitava.

 

Anche  la Starna andò incontro a incroci, ma solo con soggetti allevati in cattività dal momento che non sono stati rinvenuti documenti attestanti immissioni di soggetti importati da altri paesi.

Queste starne furono ugualmente immesse sia nel territorio libero che nelle Zone di Ripopolamento e Cattura. A partire dal 1967, sempre con lo scopo di rimediare al crescente declino delle popolazioni di starna, l'Amministrazione Provinciale realizzò un allevamento presso "Villa Parigini" in località Basciano (Monteriggioni) In tale allevamento furono nel tempo prodotti anche fagiani e pernici rosse da destinare sia al territorio libero che alle Zone di Ripopolamento e Cattura.

 

 



 

L'inversione degli anni '80

 

 

Le nuove Zone di Ripopolamento e Cattura

 

Verso la fine degli anni '70 il mondo venatorio senese inizia ad avvertire l'esigenza di un radicale mutamento nella gestione faunistica e venatoria del territorio. In questi anni vengono così a cessare tanto le importazioni di lepri quanto le immissioni di soggetti allevati in cattività all'interno delle Z.R.C. e viene chiuso l'allevamento di Basciano. Le Zone di Ripopolamento e Cattura vengono aumentate di numero ed in superficie, in modo tale da coprire tutto il territorio provinciale. In altre parole si passa da un modello basato su un numero abbastanza contenuto di Z.R.C. (tra le 15 e le 20, un terzo delle quali gestite in prima persona dall'Amministrazione Provinciale, capaci da sole di fornire selvaggina per il ripopolamento dell'intero territorio provinciale) ad un modello basato sulla gestione sociale di circa 60 Zone di Ripopolamento e Cattura. Queste ultime, pur non essendo in grado di fornire (almeno nei primi anni) un quantitativo di selvaggina paragonabile alla vecchie Zone di Ripopolamento e Cattura, hanno però il pregio di assicurare un minimo irradiamento di piccola selvaggina stanziale sull'intero territorio provinciale per l'intero arco della stagione venatoria e di coinvolgere i cacciatori nella gestione faunistica. In altri termini, all'inizio degli anni '80 in provincia di Siena si avvia un processo di profonda trasformazione dei presupposti culturali che sono alla base dell'attività venatoria, sensibilizzando i cacciatori circa la necessità di un loro diretto e responsabile impegno nella conservazione faunistica.

 

Le nuove Aziende Faunistiche Venatorie

 

Le stesse Riserve di caccia vanno incontro ad un processo di radicali mutamenti. Gli istituti privati vengono, infatti, ridotti tanto in termini numerici quanto in termini di superficie complessivamente occupata, privilegiando la sopravvivenza delle realtà gestite secondo criteri faunistici e penalizzando viceversa quelle condizionate da meri interessi venatori. Le nuove Aziende Faunistiche Venatorie vengono sollecitate a adottare indirizzi gestionali volti a conservare in primo luogo la Lepre, specie ritenuta, a ragione, in grave pericolo e quindi di prioritaria importanza. Di qui la cessazione di qualsiasi immissione di soggetti di importazione e la massima valorizzazione dei patrimoni faunistici esistenti tramite un'oculata attività di miglioramento ambientale. Nei confronti dello stesso Fagiano (sebbene non ritenuto dai regolamenti regionali specie in indirizzo) l'Amministrazione Provinciale fornisce indicazioni gestionali volte a ridurre le immissioni di soggetti allevati in cattività ed a favorire l'affermazione di popolazioni selvatiche capaci di riprodursi allo stato naturale.

 

 



 

Gli Ambiti Territoriali di Caccia - A.T.C.

 

 

L'istituzione degli Ambiti Territoriali di Caccia, nel 1996, rappresenta il passo determinante verso una più oculata gestione ambientale, faunistica e venatoria della provincia. Gli A.T.C. e l'Amministrazione Provinciale, infatti, individuano da subito come punto qualificante del proprio operare la realizzazione di una forte azione di riequilibrio faunistico del territorio basata, al tempo stesso, sulla presenza del contenimento degli ungulati (in particolare del cinghiale) e sul potenziamento della piccola selvaggina stanziale, da attuarsi in primo luogo tramite un consistente intervento di miglioramenti ambientali a fini faunistici (Mussa, 1990; Genghini, 1994; Santilli & Mazzoni della Stella, 1997; Simonetta, 1998; Mazzoni della Stella et al., 1999).

 

Gli A.T.C.: le Zone di Rispetto Venatorio

 

Al momento dell'istituzione degli Ambiti Territoriali di Caccia risultò chiaro come l'obiettivo di riequilibrio faunistico e venatorio a favore della piccola selvaggina fosse essenzialmente una partita da giocare in quelle zone della provincia caratterizzate, a causa dell'abbandono agricolo (come nel caso emblematico della Val di Merse) o dell'introduzione della monocultura vitivinicola (come nel caso, altrettanto emblematico, del Chianti) da una forte rarefazione del fagiano e della lepre. Questa riflessione partiva, inoltre, dalla constatazione che tutte le Zone di Ripopolamento e Cattura fino allora istituite in aree scarsamente coltivate e ricche di boschi e cespugliati, erano risultate esposte al rischio di un'indebita presenza del Cinghiale (con tutto quanto ne consegue in termini di danni alle colture agricole e di difficoltà di rapporti con i proprietari dei fondi) e caratterizzate de un'insoddisfacente produttività faunistica in termini di piccola selvaggina stanziale. Di conseguenza, il problema della ricostruzione di popolazioni selvatiche di Fagiano e Lepre all'interno di queste aree appariva risolvibile solo puntando su aree protette di dimensioni contenute, prive di vaste aree boscose o cespugliate e viceversa dotate, per quanto possibile, di aree coltivate sufficientemente variegate.

 

Il secondo problema da risolvere era rappresentato dalla disponibilità di piccola selvaggina con cui dotare queste nuove aree protette. In via di principio era scontato che la migliore selvaggina da utilizzare fosse quella catturata nelle Z.R.C. Tuttavia, a sfavore di questa soluzione militavano due aspetti difficilmente superabili: il primo era rappresentato, comunque, dalla insufficiente disponibilità di selvaggina di cattura da destinare a questo tipo di operazioni (per legge solo il 20% di tutti gli animali catturati), il secondo, molto più problematico del primo, risiedeva nel fatto che alle catture nelle Z.R.C. partecipa, nel migliore dei casi, un numero molto limitato di cacciatori, in ogni caso assai poco disposti a cedere, dopo una faticosa giornata di catture, il frutto del loro lavoro per il ripopolamento di aree distanti o poco o nulla utilizzate nella loro normale attività venatoria. Percorrere questa strada avrebbe significato infliggere un duro colpo ad un volontariato gia di per sé ridotto ai minimi termini.

 

L'unica soluzione praticabile apparve allora quella della istituzione di Zone di Rispetto Venatorio, di dimensioni medie intorno ai 300 ha (dotate di ambienti ad elevato indice di variabilità, scarsamente boscose ed incastonate in ambienti ad elevata problematicità ambientale e faunistica) da utilizzare per l'ambientamento di fauna allevata in cattività: unica selvaggina disponibile nelle quantità richieste da un obiettivo quale quello del riequilibrio faunistico dell'intero territorio provinciale. Nel ricorso a selvaggina allevata in cattività non furono però sottovalutati i limiti biologici, ecologici, etologici e sanitari di questo tipo di animali. In tal modo, contemporaneamente alla istituzione delle Z.R.V. si è proceduto:

 

    1)    alla realizzazione (sulla base di specifici rilevamenti ambientali) di consistenti piani di miglioramento ambientale all'interno delle Z.R.V. stesse;

     

     2)    alla costruzione all'interno delle migliori Z.R.V. di ampi (in media di oltre 3 ha) recinti a cielo aperto: recinti in grado di assicurare un corretto inserimento nell'ambiente naturale dei fagiani allevati in cattività e al tempo stesso capaci di consentire anche l'allevamento semi-naturale della lepre (partendo da soggetti catturati in natura);

 

   3)   alla conduzione di un'esperienza di allevamento del fagiano secondo rigorosi criteri qualitativi, partendo da soggetti riproduttori catturati direttamente all'interno delle migliori Z.R.C. della provincia di Siena;

 

    4)    all'impiego dei recinti di ambientamento dei fagiani anche per la realizzazione di un Piano Provinciale di reintroduzione di Starna e Pernice rossa, correttamente fondato sulla preliminare elaborazione di una carta delle vocazioni del territorio nei confronti di queste due specie.

 

 



 

La lepre

 

 

La situazione della specie nelle indagini degli anni '90

 

Lo studio sullo status delle popolazioni di Lepre della provincia condotto, per conto dell'Amministrazione Provinciale , dal Dipartimento di Biologia Animale dell'Università di Pavia nel periodo 1988-1990 (Meriggi, 1991; Rosa et al. 1991a, 1991b) aveva chiarito come le popolazioni di lepre della provincia di Siena fossero caratterizzate da modesti incrementi delle densità tra la primavera e l'autunno e come tale dato fosse da imputare significativamente, ad una repentina quanto estesa spartizione delle stoppie dei cereali ed una scarsa disponibilità di foraggiere nel periodo estivo ed autunnale, nonché ad alcune caratteristiche ambientali negative, rappresentate tanto dalle elevate estensioni di bosco e calanchi quanto dalle elevate densità di ovini pascolanti.

Tali risultati sono stati alla base della ristrutturazione ambientale attuata negli ultimi anni in buona parte delle Zone di Ripopolamento e Cattura, in primo luogo in quelle presenti nell'area delle Crete senesi: il comprensorio dove la situazione delle popolazioni di Lepre appare maggiormente critica. Di qui lo sforzo da parte del Servizio Risorse Faunistiche di collocare le Z.R.C. più problematiche intorno ai centri abitati, vale a dire all'interno di aree coltivate ancora in modo tradizionale, non interessate dalla pastorizia, prive di vaste aree boscose interessate dalla presenza dei cinghiali. Di qui anche l'adozione di una politica di miglioramenti ambientali a fini faunistici volta ad attenuare (nella misura massima consentita dai fondi disponibili e dalla disponibilità degli agricoltori) questi negativi fattori ambientali. Di qui, infine, le sollecitazioni rivolte alle Aziende Faunistiche Venatorie ad attuare una reale gestione ambientale a favore della Lepre.

 

Lo studio del Dipartimento di Biologia Animale dell'Università di Pavia aveva anche fornito un quadro preciso circa la vocazione del territorio nei confronti della specie. Tali indicazioni sono state ugualmente tenute in considerazione nei processi di ristrutturazione e di gestione tanto degli istituti faunistici pubblici quanto quelli privati.

L'indagine condotta da Servizio Risorse Faunistiche  (Matteucci et. al., 1999) sui carnieri di lepri realizzati in provincia di Siena, tramite l'analisi del peso del cristallino degli occhi ricavati (grazie all'attiva collaborazione dei cacciatori) da un vasto campione di soggetti abbattuti sull'intero territorio provinciale nel periodo compreso tra il 1992 ed il 1994, ha sostanzialmente confermato le conclusioni cui era giunto lo studio dell'Università di Pavia: modesta sopravvivenza dei leprotti provocata da consistenti fattori ambientali negativi.

 

La situazione della specie all'interno delle Z.R.C.

 

Nel periodo compreso tra il 1995 ed il 1999 l'Amministrazione Provinciale e gli Ambiti Territoriali di Caccia si sono fortemente impegnati nel tentativo di porre rimedio alla situazione sopra descritta cercando di migliorare in primo luogo la gestione complessiva delle Zone di Ripopolamento e Cattura.

 

L'esame dello status delle popolazioni di Lepre presenti all'interno delle Z.R.C. (Nazzoni della Stella, 1989b) (basato sui dati relativi alle densità rilevate durante i censimenti notturni realizzati nel tardo autunno, prima delle catture, a partire da un'ora dopo il tramonto, lungo percorsi campione sufficientemente rappresentativi delle aree indagate, da due operatori muniti di fari di 100watt di potenza e binocoli 7x42 a bordo di un'auto scoperta, e calcolate, previa digitalizzazione presso il S.I.T. della Provincia dell'area illuminata, procedendo ad una semplice proporzione tra l'area illuminata stessa, l'area totale aperta presente nell'istituto indagato ed i capi avvistati) condotto mediante l'analisi del trend (eseguita tramite un'autoregressione secondo il metodo della massima verosimiglianza esatta), mostra una situazione della Lepre caratterizzata fino al 2005 da una sostanziale stabilità.

 

Tuttavia, analizzando la situazione a livello di ciascun A.T.C. è possibile constatare come le diverse realtà siano caratterizzate, sostanzialmente, da diverse linee di tendenza.

Nel caso dell'A.T.C. 17 il trend è caratterizzato negativamente, mentre ha un andamento leggermente positivo nell'A.T.C. 18 e nettamente positivo nell'A.T.C. 19. Nel caso tanto dell'A.T.C. 17 quanto dell'A.T.C. 18 sarebbe pertanto di assoluta importanza incrementare in misura consistente, così come è stato fatto dall'A.T.C. 19, gli interventi di miglioramento ambientale all'interno delle Z.R.C.

 

 



 

Il fagiano

 

 

Il Fagiano nelle Z.R.C.: una situazione delicata nonostante l'impegno degli A.T.C.

 

L'esame dello status delle popolazioni di Fagiano presenti all'interno delle Z.R.C.   (basato sui dati relativi alle densità rilevate durante i censimenti diurni realizzati nel tardo autunno, prima delle catture, nelle ore che precedono il tramonto, lungo percorsi campione sufficientemente rappresentativi delle aree indagate, da due operatori muniti  di  binocoli 7x42 a bordo di un'auto scoperta, e calcolate, previa digitalizzazione presso il S.I.T. della Provincia dell'area perlustrata, procedendo ad una semplice proporzione tra l'area perlustrata stessa, l'area totale aperta presente nell'istituto indagato ed i capi avvistati) condotto mediante l'analisi del trend (eseguita tramite un'autoregressione secondo il metodo della massima verosimiglianza esatta), mostra una situazione caratterizzata da un leggero declino.

Nel caso del Fagiano la situazione delineata sulla base dell'analisi dei trend deve essere interpretata con estrema cautela in quanto il metodo di censimento impiegato offre un indice relativo di abbondanza ed è comunque soggetto a notevoli inconvenienti in quanto i fagiani nel momento in cui viene condotto il transetto non è detto che si trovino in misura significativa nelle aree aperte, anzi vi sono moltissime probabilità che, per motivi prevalentemente di carattere meteorologico o di disponibilità alimentare (ghiande), essi si trovino all'interno delle arre coperte e quindi sfuggano alle osservazioni di coloro che effettuano il censimento. Ciò premesso, non si può fare a meno di costatare come il quadro che abbiamo di fronte mostri una certa difficoltà delle popolazioni di Fagiano presenti nelle Z.R.C. Difficoltà che appare, peraltro, essere generalizzata a tutti gli A.T.C. senesi. Questa situazione appare, in vero, abbastanza sorprendente, considerato l'impegno profuso dagli A.T.C. nella gestione di questo selvatico.


Il rapporto squilibrato tra maschi e femmine catturate: un fattore negativo

 

Lo studio sulle catture di fagiani realizzate nelle Z.R.C. "Il Piano" (Casole d'Elsa) condotto negli anni 1994, 1995 e 1996 (Burrini et al., 1999), ha dimostrato come il rapporto sessi tra i soggetti catturati sia mediamente composto per il 38,1% da maschi e per il 61,9% da femmine. I censimenti di fagiani condotti negli stessi anni all'interno della stessa Z.R.C. hanno dimostrato come il rapporto tra i due sessi all'inizio della stagione riproduttiva veda, al contrario, una netta prevalenza di (maschi 62,0%, femmine 38,0%). In altri termini, la tendenza di anno in anno a catturare un numero eccessivo di femmine rispetto ai maschi può nel tempo aver alterato il rapporto tra i due sessi con riflessi negativi sulla produttività delle diverse popolazioni. Un eccesso di maschi durante la stagione riproduttiva, infatti, si traduce in un eccessivo disturbo per le femmine, sottoposte agli attacchi dei maschi non territoriali sprovvisti di un proprio harem, che sua volta influenza negativamente tanto sul successo riproduttivo quanto sulla successiva sopravvivenza delle femmine (Hill & Robertson, 1988).

 

 



 

La Starna e la Pernice rossa

 

 

I primi tentativi di reintroduzione delle due specie

 

La sperimentazione per la reintroduzione della Starna è iniziata in provincia di Siena nella primavera del 1986 con il coinvolgimento di 16 Aziende Faunistico Venatorie e 6 Zone di Ripopolamento e Cattura.

I risultati ottenuti furono in alcuni casi incoraggianti come ad esempio all'interno dell'A.F.V. "Le Malandrine".

Il principale fattore limitante per quest'esperienza risultò essere la ridotta dimensione della zona di sperimentazione (Nazzoni della Stella, 1986e, 1987b, 1988, 1989a, 1992d). Un più recente tentativo di reintroduzione della Starna (tuttora in corso) è quello iniziato nel 1995 dall'ENCI nella Z.R.C. "Val d'Orcia" (Castiglione d'Orcia).

Il metodo utilizzato in questo caso è stato quello basato sulla liberazione di piccoli gruppi di starne tramite gabbie, nelle quali viene trattenuta una coppia (maschio e femmina) con funzioni di richiamo rispetto alla brigata immessa. Nei 2.263 ha della Z.R.C. Val d'Orcia sono state immesse 160 starne nel tardo inverno 1995, 250 nell'autunno dello stesso anno e 20 (10 coppie) nella primavera 1996. Anche in questo caso i risultati ottenuti sono stati più che incoraggianti (Meriggi, 1999a).


Per quanto riguarda la Pernice rossa le esperienze di reintroduzione sono iniziate nel 1986 nel Centro Pubblico di Produzione di Selvaggina "La Foce" (Chianciano). In questo istituto furono immesse nel 1986 e nel 1987 rispettivamente 163 e 200 pernici rosse in periodo estivo, utilizzando piccole voliere di ambientamento. I risultati ottenuti si caratterizzarono per una buona percentuale di coppie riprodottesi ma per un ridotto numero di giovani per nidiata, in gran parte dovuto ai temporali verificatesi nel periodo giugno-luglio di alcuni anni (in particolare nell'estate del 1990).

Il secondo esperimento di reintroduzione della Pernice rossa (tuttora in corso) fu realizzato nell'Area a Regolamento Specifico di Monticiano. Tra il 1990 ed il 1993 furono immesse 402 pernici rosse mediante recinto di ambientamento di 5,5 ha. Questa tecnica, in virtù della capacità attrattiva espressa dal recinto, permise di contenere in misura rilevante le perdite dovute alla predazione e alla dispersione. La popolazione reintrodotta mostrò un successo riproduttivo paragonabile ai valori medi registrati in altre situazioni italiane, tuttavia, il numero di giovani per nidiata risultò inferiore alle medie normalmente rilevate (Meriggi, 1996b).

Il terzo esperimento di reintroduzione della pernice rossa è stato condotto dall'Amministrazione Provinciale a partire dal 1995 in un'area alle pendici del Monte Amiata rappresentata da tre Z.R.C. (Val di Paglia, nel comune di Abbadia San Salvatore; Casa del Corto, nel comune di Piancastagnaio e Le Pianine, nel comune di Radicofani) unite tra loro a costituire un'unica area protetta di 3.374 ha.

 

Tra il 1995 e il 1997 in questa area sono state immesse tramite un recinto di ambientamento di circa 6,5 ha, 632 pernici rosse nel 1995, 1.000 nel 1996  e 500 nel 1997. La popolazione così reintrodotta ha mostrato un successo riproduttivo soddisfacente, sempre superiore al 40%. Il numero medio di giovani per nidiata ha mostrato un andamento crescente, passando da 5,7 nel 1996 a 6,5 nel 1997 e 7,3 nel 1998, a testimonianza di un buon andamento della popolazione all'ambiente (Meriggi, 1999b).


Gli A.T.C. e la carta delle vocazioni del territorio

 

A partire del 1997 l'Amministrazione Provinciale, insieme con gli Ambiti Territoriali di Caccia, avvalendosi del Dipartimento di Biologia Animale dell'Università di Pavia, ha affrontato il problema della pianificazione della reintroduzione della Starna e della Pernice rossa sull'intero territorio territorio provinciale. L'esperienza dei recinti di ambientamento è stata di conseguenza generalizzata provvedendo alla realizzazione di tali strutture nelle Zone di Ripopolamento e Catture e nelle Zone di Rispetto Venatorio (Meriggi, 1999a).

 

In tutti questi casi i risultati conseguiti sono stati ugualmente positivi, sia nel caso della Starna sia nel caso della Pernice rossa e sulla base di questi dati biologici reali, il Dipartimento di Biologia Animale dell'Università di Pavia ha provveduto a elaborare la "Carta delle vocazioni per la Starna  e la Pernice rossa in provincia Siena", uno strumento scientifico in grado di fornire fondamentali informazioni ed indicazioni per una corretta programmazione del processo di reintroduzione delle due specie e per un'oculata gestione delle popolazioni reintrodotte (Meriggi, 1999a).

 

Per la Carta il territorio provinciale conserva ancora vaste aree caratterizzate da un elevato grado di idoneità nei confronti della Starna ed in misura minore nei confronti della Pernice rossa. Il 47,6% della provincia è risultato, complessivamente, idoneo alla presenza tanto delle coppie quanto delle nidiate di starna. Nel caso dell'A.T.C. 17 il territorio idoneo è risultato essere il 36,3%, mentre per l'A.T.C. 18 è risultato essere il 54% e per l'A.T.C. 19 il 52%.

 

Poco meno del 20 % del territorio provinciale è risultato, viceversa, idoneo tanto per le coppie quanto per le nidiate di Pernice rossa. L'A.T.C. 17 presenta una percentuale di territorio idonea alla Pernice rossa pari al 14,5%, l'A.T.C. 18 il 17% e l'A.T.C. 19 il 26,3%.

 

 

Aree idonee alla presenza della starna presenti in provincia di Siena

 

LEGENDA

= Probabilità di presenza di coppie e nidiate superiore al 50 %

= copertura forestale superiore al 50%

 

Aree idonee alla presenza della pernice rossa presenti in provincia di Siena

 

LEGENDA

= Probabilità di presenza di coppie e nidiate superiore al 50 %

= copertura forestale superiore al 50%

 



 

Il cinghiale

 

 

GLI UNGULATI

 

Lo sviluppo storico degli Ungulati in provincia di Siena


I dati storici
L'espansione territoriale e demografica delle popolazioni di Ungulati in provincia di Siena ha coinciso con il declino della piccola selvaggina (Mazzoni della Stella, 1986a; 1 986b). Alla base dei due processi ci sono, sostanzialmente, le trasformazione intervenute alla fine degli anni '50 nelle attività agricole e silvocolturali. Alla meccanizzazione ed intensificazione delle operazioni agricole sui terreni più fertili fece riscontro lo spo-polamento e l'abbandono delle aree agricole meno produttive e la cessazione delle tradizionali attività di sfruttamento dei boschi.

Negli anni '60 furono abbandonate, infatti, attività come l'allevamento allo stato brado dei suini (la Cinta senese), la raccolta dei frutti del bosco (in particolare delle castagne) e la ceduazione dei boschi (attività quest'ultima ripresa con una certa intensità solo in anni recenti). Queste trasformazioni ecologiche finirono per favorire animali come il Cinghiale, fino a quel momento relegato (a causa della massiccia presenza dei suoi diretti competitori alimentari, i suini domestici lasciati pascolare nei boschi) nelle aree più inaccessibili del territorio posto tra i fiumi Merse e Farma (Mazzoni della Stella, 1986a, 1986b) ed il Capriolo, anch'esso sopravvissuto solo in questa stessa limitata area della provincia (Mazzoni della Stella, 1990)
Tuttavia, il processo di espansione territoriale e demografica degli Ungulati è stato alterato nel tempo tramite ripetute immissioni di soggetti provenienti da altri paesi europei e/o da allevamenti in cattività.

 

I problemi di convivenza tra Ungulati e agricoltura


I dati storici di archivio sono assai interessanti anche per quanto concerne il problema della coesistenza tra Ungulati e colture agricole.
Per quanto riguarda i danni arrecati alle colture da parte del Cinghiale le segnalazioni dei danni sono immediatamente successive (1969) alle prime documentate immissioni (1967). Ed è significativo come già nel 1970 il Comitato Provinciale della Caccia si trovi a dover fare i conti con una richiesta, avanzata dall'Unione Agricoltori, di dichiarare il Cinghiale animale "nocivo". Le aree maggiormente colpite erano quelle del Chianti e di Montalcino. In altri termini, fin dall'inizio degli anni '70, il Cinghiale inizia ad essere un problema nelle aree dove il bosco si trova a stretto contatto con i vigneti, vale a dire nelle aree con minore grado di vocazione nei confronti di questa specie.

Di conseguenza sorprende come il Comitato Provinciale della Caccia, nonostante la situazione di conflitto con gli agricoltori, nel 1974 deliberi un ulteriore acquisto di 14 cinghiali da immettere nel territorio provinciale e come (sempre negli anni '70) effettui immissioni di daini al posto dei cinghiali ritenendoli (sic!) meno pericolosi per le colture agricole.

 

Analisi dello status delle singole specie di Ungulati

 

Il Cinghiale La gestione
L'accresciuta importanza del Cinghiale nell'attività venatoria in provincia di Siena è assai ben documentata tanto dall'evoluzione del numero delle Squadre di caccia operanti nel territorio provinciale quanto dai carnieri realizzati dalle Squadre stesse, ed ancor meglio dall'andamento delle densità dei capi abbattuti per 100 ha di superficie assegnata alle Squadre di caccia che evidenzia assai bene, come al di là delle variazioni annuali, la consistenza della specie sia andata negli anni aumentando. A tale proposito vale la pena di riflettere sul fatto che il carniere relativo alla stagione venatoria 1999-2000 necessita di ulteriore conferme prima di poter essere considerato un inizio di riduzione o quanto meno di stabilizzazione della specie. Esso, in realtà, ove si consideri che l'autunno 1998 era stato caratterizzato da una scarsissima produzione di ghiande, appare essere il prodotto di un duplice fenomeno: la scarsa riproduzione della primavera 1999 e la forte e precoce produzione di ghiande dell'autunno 1999 che ha verosimilmente comportato un minore irradiamento dei cinghiali verso le aree coltivate. Tale interpretazione sembra trovare conferma nella numerosa e precoce presenza di feti nelle femmine abbattute durante la stagione venatoria e nell'ottima produzione di piccoli che sta caratterizzando la primavera 2000.

Sotto la spinta di questo crescente interesse venatorio la presenza del Cinghiale è venuta ad essere incentivata, anche tramite il ricorso ad immissioni non autorizzate di soggetti di ogni tipo ed origine.

Il numero delle Squadre è tuttavia andato via via aumentando non solo perché è cresciuto il numero dei cacciatori che si sono dedicati a questa disciplina venatoria, ma anche a causa dell'elevato grado di litigiosità che in taluni casi caratterizza la vita interna delle Squadre stesse.

Gli interessi cinofili che questo tipo di caccia alimenta, hanno portato sovente i proprietari delle mute dei cani (i cosiddetti "canai") di una stessa Squadra a dividersi dando così origine ad ulteriori Squadre pretendenti nuovi territori di caccia. Tra il 1970 ed il 1990, si è quindi verificata un'espansione del cinghiale sulla quasi totalità del territorio provinciale.
A partire dalla fine degli anni '80, sotto l'impulso del mondo agricolo derivante dal crescente aumento dei danni procurati dal Cinghiale alle colture agricole, l'Amministrazione Provinciale inizia a adottare una specifica politica volta a governare il fenomeno nei suoi diversi aspetti.

 

Tale politica si snoda lungo alcune fondamentali linee (Mazzoni della Stella, 1992c; Mazzoni della Stella et a/.1995a):
- La suddivisione del territorio provinciale in due distinte aree: una "area vocata al Cinghiale", nella quale la presenza della specie è, sia pure a certe condizioni,compatibile ed una "area non vocata al Cinghiale",nella quale la presenza della specie non è tollerata e nella quale deve essere in ogni caso attivamente contrastata;

- la progressiva riduzione della "area vocata" e la costituzione dei "Consorzi delle Squadre", quale primo tentativo di dare un'organizzazione alla gestione del selvatico;

- il graduale aumento del numero minimo di cacciatori indispensabili per poter effettuare una battuta di caccia allo scopo di diminuire il numero delle Squadre.

- I' istituzione del Registro Provinciale delle Squadre di caccia al cinghiale;

Tra la fine degli anni '80 e la prima metà degli anni '90 vengono in tal modo adottati da parte dell'Amministrazione Provinciale una serie di provvedimenti che consentono di operare una parziale riduzione della porzione di territorio provinciale gestita direttamente dalle Squadre di caccia alle quali, almeno nominalmente, viene assegnata la gestione venatoria della sola area vocata. Quest'ultima, tra il 1988 ed il 1995, subisce alcune parziali riduzioni, passando così dai 232.968 ha del 1988, ai 194.264 ha del 1990 ed ai 151.251 del 1995. Nello stesso periodo, anche il numero delle Squadre, dopo due decenni di crescita ininterrotta, inizia a declinare, passando dalle 155 del 1990 alle 122 del 1995 ed i territori assegnati ai diversi "Consorzi delle Squadre" finiscono per assumere una conformazione geografica definita.

 

Nonostante tutti questi provvedimenti, la situazione dei danni, a metà degli anni '90, sembra raggiungere il culmine, cosicché, a partire dal 1996, con la costituzione degli A.T.C., l'Amministrazione Provinciale sigla insieme alle Associazioni Venatorie, Agricole e agli stessi A.T.C, un "Protocollo di intesa per la gestione della presenza del Cinghiale in provincia di Siena", nel quale vengono fissati precisi indirizzi di gestione e parametri di densità della specie in ogni area ed istituto della provincia. In questo documento per la prima volta si prevede per l'area non vocata, e per gli istituti faunistici pubblici e privati in essa presenti, l'obiettivo dell'eradicazione della specie. Il Protocollo si dimostra, nei successivi anni, un utile strumento per ricomporre i rapporti tra le categorie e ad instaurare un sereno clima di concertazione. Da questo contesto scaturisce, nell'Aprile 1999, il nuovo "Regolamento Provinciale per la prevenzione e l'indennizzo dei danni arrecati dalla fauna selvatica alle colture agricole", nel quale si passa dalla prassi basata sull'indennizzo a posteriori del danno a favore di una più corretta prassi basata sulla prevenzione "a priori" del danno stesso. La prevenzione viene ad essere privilegiata in quanto consente una reale tutela del lavoro e del reddito dell'agricoltore, in particolare nei casi di produzioni agricole di elevato valore e destinate all'esportazione sui mercati internazionali, così come i vini D.O.C.G.

 

Con la nascita degli A.T.C, i preesistenti 24 "Consorzi delle Squadre" vengono ad essere sostituiti da 19 "Distretti di gestione del Cinghiale". Il cambiamento, ovviamente, non è solo nominale. I Distretti, infatti, vengono configurati sulla scorta di un'attenta analisi ambientale volta a determinare, per quanto possibile, dei comprensori ambientalmente omogenei, caratterizzati da problemi di gestione simili (Tab. 41 e 42). I nuovi Distretti vengono a rappresentare così lo strumento fondamentale per coinvolgere i cacciatori nell'attività di gestione del Cinghiale ed in particolare nella prevenzione dei danni.
Con l'istituzione dei Distretti, nell'autunno del 1997 hanno inizio anche sistematiche operazioni di monitoraggio delle diverse popolazioni di cinghiali. Tali operazioni, svolte dai cacciatori sotto il diretto controllo dei Tecnici degli A.T.C, e dell'Amministrazione Provinciale, divengono così strumento essenziale per la gestione della specie su tutto il territorio provinciale. Le stime vengono realizzate mediante le battute per aree campione, condotte in autunno (prima dell'inizio della caccia) all'interno di alcune aree a divieto di caccia, ed il conteggio delle orme, condotto (sempre prima dell'inizio della stagione venatoria) lungo itinerari (transetti) prestabiliti, tanto all'interno delle stesse aree di battuta quanto all'interno delle aree di caccia dei diversi Distretti. Queste ultime operazioni vengono poi ripetute nel tardo inverno (al termine della caccia). In tal modo diviene possibile acquisire dei preziosi dati relativi alla consistenza dei diversi nuclei della popolazione di cinghiali presente nel territorio provinciale.

 

A partire dal 1997 gli A.T.C, hanno inoltre proceduto al diretto controllo dei carnieri realizzati dalle Squadre. E' stato così imposto alle Squadre l'applicazione obbligatoria di una fascetta numerata all'orecchio di ciascun capo abbattuto e la successiva obbligatoria consegna agli A.T.C, degli orecchi marcati e delle fascette non utilizzate per l'effettuazione dei controlli e per la registrazione dei dati venatori.

Nel 1998 si è, infine, proceduto, utilizzando il Sistema Informativo Territoriale (SIT) dell'Amministrazione Pro-vinciale, ad un'attenta ricognizione dell'area vocata al Cinghiale, adottando a tale proposito precisi parametri ambientali. Sulla scorta dei rilievi satellitari sono state così definiti come vocati al Cinghiale esclusivamente i territori caratterizzati da un indice di boscosità non inferiore al 60%.

Tale ristrutturazione ha comportato la riduzione dell'area vocata al Cinghiale a 104.429 ha, caratterizzati da un indice medio di boscosità pari allo 80,1% (nella vecchia area vocata il bosco rappresentava il 69%)
Il territorio scorporato dalla precedente area vocata, pari a circa 47.692 ha, è stato definito come "area non vocata di tipo A", vale a dire come area nella quale resta sospesa la destinazione definitiva. In altri termini, questa suddivisione è finalizzata a favorire un graduale ritiro delle Squadre di caccia da quei territori che, a causa di un elevato grado di compenetrazione tra boschi e colture agricole presentano elevati indici di danni.
 

 



 

Il capriolo

 

 

I CERVIDI

 

Il Capriolo, la presenza storica della specie


La presenza del Capriolo in provincia di Siena ha in parte origini autoctone (nell'area compresa tra i fiumi Merse e Farma) ed in parte alloctona (Crete senesi ed Amiata) (Mazzoni della Stella, 1990, 1993a).

Le indagini di carattere genetico (Lorenzini et al., 1997) hanno confermato come le popolazioni dell'area delle Crete senesi siano sostanzialmente omogenee rispetto a quelle originarie del comprensorio Farma - Merse e come le popolazioni dell'area del Monte Amiata, originate da due immissioni di soggetti provenienti dal Centro Europa (Mazzoni della Stella, 1990), siano nettamente diverse da tutte le altre.
Tra il 1990, anno di conclusione della prima indagine sulla presenza del Capriolo in provincia di Siena (Mazzoni, 1990) ed il 2000, la specie ha conosciuto un'ulteriore espansione del proprio areale di presenza finendo per colonizzare pressoché l'intero territorio provinciale, fatta eccezione per la fascia di pianura compresa tra l'autostrada A1 ed il confine con la provincia di Arezzo.

La stessa indagine sulla presenza del Capriolo svolta nel 1997 (e ripetuta nel 1999) sull'intero territorio provinciale (suddiviso in 867 Unità di Campionamento, di 400 ha ciascuna) tramite specifici percorsi di osservazione condotti all'alba o al tramonto all'interno di ciascuna Unità di Campionamento, ha dimostrato come la specie abbia oggi in provincia di Siena una distribuzione pressoché ubiquitaria (Brangi, 1999).

 

Lo status della specie


L'analisi dei trend (eseguita tramite un'autoregressione secondo il metodo della massima verosimiglianza esatta) basata sui censimenti notturni autunnali di Capriolo realizzati nelle Z.R.C, della provincia tra il 1987 ed il 2000, mostra un andamento crescente. Tale andamento caratterizza sia le Z.R.C, dell'A.T.C.17 che quelle dell'A.T.C.18 e dell'A.T.C.19.

Le densità di caprioli registrate durante i censimenti notturni condotti in autunno nelle Z.R.C, tra il 1987 ed il 1999 mostrano un andamento crescente. Tuttavia, un confronto tra le densità medie rilevate all'interno delle Z.R.C, nel 1996 con quelle rilevate nel 1999 mostra solo un modesto incremento, passando da un valore medio di 3,5 capi per 100 ha ad un valore di 3,9 capi per 100 ha. Esse, tuttavia differiscono in modo sostanziale nei diversi A.T.C. Infatti, mentre le Z.R.C. dell'A.T.C.17 si caratterizzano per le densità medie più basse (1,3 capi per 100 ha), quelle dell'A.T.C.18 presentano le densità medie più elevate (6,7 capi per 100 ha) e le Z.R.C. dell'A.T.C.19, infine, mostrano densità intermedie rispetto alle Z.R.C, degli altri A.T.C. (3,7 capi per 100 ha).

 

La situazione del Capriolo nelle Z.R.C. dell'A.T.C.18 merita di essere approfondita. Infatti, a fronte di alcune Z.R.C., prevalentemente caratterizzate da densità di Capriolo contenute, nelle quali le popolazioni di questo Cervide appaiono essere in netto aumento, come ad esempio nel caso, delle Z.R.C. "Bibbiano", "Il Deserto" e "Il Pecorile", ve ne sono altre, caratterizzate da elevate densità di Capriolo, nelle quali la specie sembra aver raggiunto la capacità portante ed essersi (anche in virtù degli interventi di controllo effettuati al loro interno a partire dal 1996) sostanzialmente stabilizzata, così come nel caso delle Z.R.C. "Castelverdelli", "Le Palaie" e "Val di Cava.

Anche nelle Z.R.C. dell'A.T.C.19, come ad esempio "La Trove", ugualmente caratterizzate da densità di caprioli elevate, si registra una tendenza alla stabilizzazione, mentre nelle Z.R.C, caratterizzate da densità più contenute si evidenziano situazioni in netta crescita, così come nel caso delle Z.R.C. "I Poggi" e "Val d'Orcia".

 

Nel caso delle A.F.V. l'analisi dei trend basata sui censimenti notturni primaverili (vale a dire al termine dell'attività venatoria) realizzati tra il 1987 ed il 2000, mostra un andamento sostanzialmente stabile, con densità medie più elevate di quelle registrate nelle Z.R.C.. Tale andamento sembra confermare quanto già detto a proposito delle Z.R.C., vale a dire al conseguimento di elevate densità le popolazioni di capriolo appaiono tendere verso la saturazione della capacità portante dei diversi ambienti e di conseguenza ad assumere un trend sostanzialmente stazionario.

 

Le densità di caprioli registrate durante i censimenti notturni condotti in primavera nelle A.F.V. tra il 1987 ed il 2000, dopo i forti incrementi registrati nella prima metà degli anni '90, nella seconda metà del decennio mostrano una certa stabilità. Il confronto tra le densità rilevate all'interno delle A.F.V. con i censimenti del 1996 con quelle rilevate con i censimenti del 1999 conferma questa tendenza alla stabilità, sebbene con sostanziali differenze tra i diversi Comprensori. Le A.F.V. del Comprensorio n.17 si caratterizzano, infatti, per densità medie più contenute (7,6 capi per 100 ha) rispetto a quelle del Comprensorio n.18 (14,8 capi per 100 ha), con una tendenza tuttavia, come nel caso delle Z.R.C., ad una sostanziale stabilità. Le A.F.V. del Comprensorio n.19, infine, presentano una densità media abbastanza prossima a quella delle A.F.V. del Comprensorio n.18 (13,6 capi per 100 ha).

 

Come nel caso delle popolazioni di Capriolo presenti all'interno delle Z.R.C., anche quelle presenti nelle A.F.V. mostrano una certa tendenza alla stabilità non appena vengono raggiunte densità di un certo rilievo, con le sole significative eccezioni delle A.F.V. "Pentolina", "Lucignano d'Asso" e "Montercamerini" che sembrerebbero collocare la soglia di saturazione della capacità portante di alcuni ambienti della provincia a livelli di densità abbastanza elevati. Non mancano, tuttavia, anche nel caso delle A.F.V., situazioni caratterizzate da una certa tendenza alla stabilizzazione intorno a densità elevate così come, tra i tanti esempi possibili, "Bagnaia" o "Monterongriffoli".

 

La gestione venatoria programmata


La gestione venatoria programmata del Capriolo, quella che viene definita comunemente e meno propriamente "caccia di selezione", è iniziata nel 1990 ha di fatto concluso il suo primo decennio di storia e con la stagione venatoria 1999-2000 ha iniziato il secondo.
Il tratto caratterizzante di questa esperienza è stata, diversamente da altre province toscane, la gradualità, vale a dire una crescita graduale della gestione intesa sia come abilitazione anno per anno di un numero contenuto di cacciatori, sia come allargamento dell'area gestita, sia come aumento del prelievo venatorio. Tale impostazione è alla base dei buoni risultati ottenuti dalla provincia di Siena nella gestione delle popolazioni di Cervidi e di Bovidi.
In tal modo i cacciatori, definiti con un neologismo ormai entrato nel linguaggio di tutti i giorni "selecontrollori", sono passati dai 100 del 1990 ai 1.132 della stagione venatoria 1999-2000 (a cui si sono aggiunti altri 128 abilitati al corso 2000, arrivando così ad un nuovo totale di 1.212 abilitati) venendo in tal modo a rappresentare una componente di rilevante importanza nel contesto dei cacciatori locali.

 

Di pari passo con la crescita del numero dei "selecontrollori" sono venuti aumentando tanto il numero dei Distretti di gestione quanto la superficie gestita. Siamo passati così dai 3 Distretti della stagione venatoria 1990-1991 ai 19 Distretti della stagione venatoria 1998-1999, stagione nella quale la gestione ha finito per coprire l'intero territorio provinciale, per finire ai 21 distretti della stagione venatoria 1999-2000, a partire dalla quale è iniziata (con la creazione da parte dell'A.T.C.19 dei nuovi Distretti di "Val d'Orcia" e "Monte Cetona") la suddivisione dei Distretti di maggiori dimensioni in Distretti di più contenuta estensione.

Questo processo di suddivisione delle Unità di gestione di grande superficie consentirà, nel prossimo decennio, di rendere gradualmente più aderente la gestione faunistica e venatoria alle diverse realtà ed esigenze del territorio, in primo luogo alla necessità di dover prevenire i danni che queste specie arrecano alle colture agricole ed al bosco.

 

Il tratto maggiormente distintivo dell'esperienza senese è indubbiamente rappresentato dall'impegno posto dai "selecontrollori" nella conduzione dei censimenti con il metodo delle battute per aree campione. Con la stagione venatoria 1999-2000 sono state eseguite 112 battute di censimento che hanno coperto 3.902 ettari di bosco, con una percentuale di bosco battuta pari al 3,6% dell'intera superficie boscosa presente nei Distretti e con una dimensione media di ciascuna battuta di 35 ha.
Questo ragguardevole impegno ha consentito negli anni, insieme ai censimenti notturni condotti all'interno degli istituti faunistico-venatori pubblici e privati, una puntuale azione di monitoraggio delle popolazioni di Capriolo.
 

I danni alle colture agricole


Tra i danni procurati dal Capriolo, a riprova delle preferenze alimentari della specie, emergono quelli a carico delle colture legnose (58% reimpianti). In questa categoria sono stati raggruppati i danni ai giovani oliveti e vigneti ed agli impianti da legno.

Desta una qualche perplessità, al contrario, il danno a carico dell'uva (21%). Non tanto perché il Capriolo non mangi l'uva, quanto piuttosto perché nel periodo nel quale si verifica il danno, nei mesi di Agosto, Settembre e nella prima decade di Ottobre, il Capriolo non da luogo ad alcun tipo di assembramenti, vale a dire a branchi capaci di procurare vasti danni al raccolto. In realtà, in questo periodo il Capriolo, avendo una distribuzione sul territorio sostanzialmente omogenea, dovrebbe arrecare danni non concentrati su aree di una certa estensione. A tale proposito è sorprendente notare come nel caso dell'A.T.C. 17 (che è l'A.T.C. indubbiamente caratterizzato dalla minore presenza della specie) i quintali di uva danneggiati dal Capriolo siano passati dai 14 del 1995 ad 1 nei 1996, raggiungere addirittura i 56 nel 1997 e poi crollare agli 8 del 1998 e addirittura ai 30 Kg del 1999.

 

L'analisi dei danni condotta a livello di A.T.C, evidenzia come l'A.T.C. 17 abbia un livello particolarmente basso di danni nei confronti dei reimpianti e, viceversa, molto elevato sui cereali autunnali. A tale proposito, fatta salva ogni considerazione sulle modeste densità raggiunte dal Capriolo su buona parte dell'A.T.C. 17, vale la pena di riflettere sul fatto che il pascolo dei cereali da parte dei caprioli avviene nel periodo invernale e primaverile, quando queste colture sono ancora in erba e risentono quindi solo in misura parziale della brucatura subita, peraltro il danneggiamento può verificarsi in conseguenza del calpestio e del coricamento dei caprioli nei campi, ma ad elevate densità.

 

Altrettanto sorprendente appare il dato relativo ai danni arrecati dal Capriolo alle colture di girasole nell'A.T.C. 18 (14%), in considerazione del fatto che la specie non si alimenta a carico di questa coltura ma può abbattere con il proprio transito le piante di girasole. Nessuna considerazione particolare può essere fatta sulle tipologie di danno registrate nell'A.T.C. 19), dove l'80% dei danni è a carico dei reimpianti, vale a dire di colture oggettivamente appetite dalla specie.
A proposito dei danni arrecati dal Capriolo agli impianti arborei occorre riflettere sui fatto che:

 

1) stiamo uscendo dalla fase di emergenza degli oliveti successiva alla gelata 1995, motivo per cui è ragionevole prevedere nel prossimo futuro un'attenuazione di questo tipo di danni;


2) per gli impianti legnosi è previsto nel Regolamento CEE 2080 il finanziamento della messa in opera di mezzi atti a prevenire l'insorgenza del danno (recinzioni, manicotti, ecc);


3) per quanto riguarda i vigneti, al contrario, siamo in una fase di vasti rinnovi degli impianti su tutto il territorio provinciale, per cui è sicuramente in questa direzione che gli A.T.C, dovranno intervenire con adeguate opere di prevenzione sulla falsa riga delle recinzioni di carattere comprensoriale già realizzate per la prevenzione dei danni da Cinghiale.


Dall'analisi del danno medio unitario registrato, nel quinquennio considerato, a livello dei singoli comuni emergono dati in sintonia tanto con le densità della specie quanto con le colture presenti sul territorio (Brangi, 1999), tranne che nel caso di Monteriggioni, comune caratterizzato da una bassa densità di caprioli che mal si concilia con l'entità dei danni accertati.